Violenza sessuale e sindacato sulla credibilità della vittima

Cass. pen., Sez. III, 17 gennaio 2025, sentenza n. 2055
MASSIMA
“Il giudizio di attendibilità della persona offesa in materia di reati sessuali deve necessariamente essere effettuato in sede di merito, tenendo conto della valutazione complessiva delle circostanze di fatto. La Corte di Cassazione, pertanto, non è competente per un riesame di tali aspetti.”
IL CASO
Con sentenza del 30 novembre 2023, la Corte di Appello ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale di primo grado, assolvendo l’imputato dall’accusa di maltrattamenti in famiglia, mentre ha confermato la condanna per reati di violenza sessuale. Il giudice di merito ha ritenuto che gli episodi di maltrattamento, sebbene gravi, non avessero raggiunto il livello di abitualità necessario per integrare il reato di cui all’articolo 612-bis del codice penale. Tuttavia, ha confermato la sussistenza di condotte di violenza sessuale, per cui l’imputato è stato condannato a una pena detentiva di 4 anni e 4 mesi.
In seguito a tale esito, l’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, sollevando diverse motivazioni di doglianza. In primo luogo, ha contestato l’attendibilità della persona offesa, richiamando la presunta confusione temporale riguardo agli eventi delittuosi e il principio del ne bis in idem, sostenendo che i fatti per cui era stato condannato per violenza sessuale fossero già stati oggetto di un precedente giudicato. Ha inoltre evidenziato incongruenze nelle dichiarazioni della persona offesa e nella valutazione delle prove presentate, suggerendo che la Corte di Appello non avesse adeguatamente considerato gli elementi di riscontro contraddittori, tra cui testimonianze di terzi e la condotta della persona offesa stessa.
Il ricorrente ha richiamato anche la necessità di un’attenta analisi circa il dissenso della persona offesa nei confronti degli atti sessuali, sostenendo che la mancanza di un consenso esplicito non fosse sufficiente a configurare il reato di violenza sessuale, se non accompagnata da un chiaro dissenso. Infine, ha lamentato il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, rilevando che la sua condotta processuale non fosse stata valutata con la dovuta considerazione.
Nel complesso, il ricorso si articola su questioni di merito, riguardanti la valutazione delle prove e l’interpretazione delle norme applicabili, evidenziando una serie di aspetti che l’imputato ritiene non siano stati adeguatamente considerati dalla Corte di Appello.
LA QUESTIONE
La questione principale si concentra sulla valutazione della credibilità della persona offesa, ponendo in evidenza l’importanza di riscontri oggettivi nelle dichiarazioni di chi denuncia atti di violenza. In particolare, si discute la necessità di dimostrare il requisito di abitualità nei maltrattamenti denunciati, nonché l’applicabilità del principio di ne bis in idem in relazione a condotte già giudicate. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2055 del 17 gennaio 2025, ha affrontato tali problematiche, evidenziando che il giudizio di attendibilità della persona offesa deve essere supportato da un’analisi coerente e strutturata delle prove, considerando anche le eventuali contraddizioni e incongruenze nelle sue dichiarazioni. La giurisprudenza ha stabilito che la testimonianza della persona offesa, pur essendo spesso l’unica fonte di convincimento per il giudice, deve essere oggetto di un’attenta valutazione critica, escludendo letture alternative che possano alterare il contesto probatorio già esaminato dai giudici di merito. Inoltre, la Corte ha ribadito che per la configurabilità dei reati di maltrattamenti e di violenza sessuale è necessario un esame dettagliato delle circostanze che caratterizzano le condotte, evidenziando la distinzione tra i beni giuridici tutelati e la necessità di evitare duplicazioni nel giudizio riguardo a fatti già oggetto di sentenze passate in giudicato. Pertanto, la Corte ha ritenuto infondati i motivi di ricorso riguardanti l’attendibilità della persona offesa e la sussistenza del requisito di abitualità, così come l’applicazione del principio di ne bis in idem.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato, confermando la sentenza della Corte di Appello di Ancona, che aveva parzialmente riformato la decisione di primo grado. Questo esito si fonda su una serie di argomentazioni elaborate dalla Corte, mirate a stabilire l’attendibilità della persona offesa e la congruenza delle sue dichiarazioni rispetto al contesto probatorio.
In primo luogo, la Cassazione ha ribadito che il giudizio di attendibilità della persona offesa, in questo caso l’ex compagna dell’imputato, deve essere effettuato dal giudice di merito. Quest’ultimo ha esaminato con attenzione le contestazioni avanzate dalla difesa, evidenziando come le dichiarazioni della parte offesa, supportate da prove testimoniali, risultassero coerenti e credibili. La Corte ha sottolineato che, nella valutazione dei reati di violenza sessuale, non è necessario dimostrare il consenso esplicito della vittima; piuttosto, il reato può essere configurato anche in assenza di un dissenso manifesto, in quanto la violenza o la minaccia possono coartare la volontà della persona offesa.
La Corte ha, inoltre, affrontato le obiezioni relative alla presunta inattendibilità della parte offesa, rilevando che la Corte d’appello aveva fornito una motivazione dettagliata per confutare tali argomentazioni. In particolare, è stata esaminata la personalità della persona offesa e le sue risposte durante il processo, che, sebbene brevi, non compromettevano la sostanza delle sue affermazioni. Anche le discrepanze nelle testimonianze relative a episodi specifici sono state attentamente analizzate e considerate nel contesto complessivo delle prove.
Infine, la Corte ha chiarito che non si configura una violazione del principio di ne bis in idem, poiché i reati contestati differiscono per i beni giuridici tutelati e per la loro natura. In particolare, è stato evidenziato come il delitto di maltrattamenti possa coesistere con quello di violenza sessuale, dato che tali condotte possono ledere distinti aspetti della persona offesa, senza che ci sia necessariamente sovrapposizione tra i fatti. Sulla base di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto infondati i motivi di ricorso, confermando la condanna dell’imputato e imponendo il pagamento delle spese processuali.