Violenza sessuale con abuso di autorità: il consenso del paziente deve essere informato e valido

Cass. pen., Sez. I, 31 dicembre 2024, sentenza n. 47682
LA MASSIMA
“Il medico, il quale abbia consapevolmente fornito al paziente informazioni inesatte o lacunose in ordine ai trattamenti che si accinge a compiere, e quindi anche in ordine alle ragioni che rendono necessario o utile procedervi, così da precludere al medesimo l’effettivo esercizio del diritto fondamentale ad autodeterminarsi, non si rappresenta di agire in presenza di un valido consenso, ossia di un presupposto indispensabile perché possa sussistere un errore sul fatto scusabile a norma dell’art. 59, quarto comma, cod. pen. Pertanto, la sua condotta integra gli estremi della violenza sessuale con abuso di autorità, perché strumentalizza la sua posizione di preminenza per costringere il soggetto passivo a subire tali atti”.
IL CASO
La Corte d’Appello confermava l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di violenza sessuale commesso con abuso di autorità. Egli, infatti, abusando della propria autorità e posizione connessa all’esercizio della professione di medico di medicina generale, aveva costretto una paziente a subire atti sessuali nel corso di una visita medica, introducendo in modo repentino e senza previo consenso, il proprio dito all’interno della vagina della donna, muovendolo e permanendo al suo interno per pochi secondi, sostenendo la necessità di accertare che non vi fosse un ingrossamento delle ovaie.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione, deducendo diversi vizi, tra i quali l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sulla scorta di un errore sul consenso, che avrebbe legittimato l’applicazione dell’art. 59, comma quarto c.p. Infatti, egli aveva previamente informato la paziente della procedura che avrebbe attuato, come si ricavava dalla circostanza per cui la stessa, poco prima di iniziare, aveva comunicato al medico di indossare il tampone mestruale e, successivamente, aveva proceduto in maniera autonoma ad abbassarsi i pantaloni.
LA QUESTIONE
La questione sottoposta al vaglio della Corte attiene alle condizioni necessarie per la configurabilità dell’errore sulla sussistenza di un valido consenso della vittima all’atto sessuale posto in essere dall’esercente di una professione medica.
LA SOLUZIONE
La soluzione prospettata dalla Corte prende le mosse dalla precisazione per cui il tema da approfondire attiene non all’applicazione dell’esimente di cui all’art. 59, comma quarto c.p., bensì all’individuazione delle condizioni alla cui presenza ricorre un errore del medico sulla sussistenza del valido consenso.
In prima battuta, rammenta che, secondo l’indirizzo ormai consolidato, il sanitario può lecitamente compiere atti volti ad incidere sulla sfera della libertà sessuale del paziente solo se abbia acquisito il suo consenso, esplicito ed informato, ovvero qualora ricorrano i presupposti dello stato di necessità. In ogni caso, deve arrestarsi in qualunque caso di dissenso dello stesso.
Tale principio è coerente con l’orientamento, per vero più generale, secondo cui presupposto di liceità di qualsiasi attività medica sia il consenso libero ed informato del paziente, in quanto non sussiste il dovere, del sanitario, di curare a prescindere dalla volontà di questi. Tanto si ricava anche dalle fonti sovranazionali e, in particolare, dall’art. 3 della Carta di Nizza sui diritti fondamentali.
Secondo l’evoluzione giurisprudenziale sia sovranazionale che costituzionale, il consenso è estrinsecazione del principio di autodeterminazione nelle scelte che riguardano la propria salute, da intendersi come libertà di disporre del proprio corpo e, dunque, libertà di accettare o meno un determinato trattamento sanitario; principio, questo, ribadito anche dalla più recente normativa in tema di disposizioni anticipate di trattamento di cui alla l. n. 219 del 2017. Tale assunto trova il proprio referente costituzionale negli artt. 2, 13 e 32 Cost., i quali condizionano la valida espressione del consenso ad una informazione che la sia più esaustiva e completa possibile, proprio al fine di garantire la libera scelta da parte del paziente.
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, la Corte afferma che l’errore rilevante ai sensi dell’art. 59, comma quarto c.p. può configurarsi solo ove il sanitario abbia agito rappresentandosi di aver ricevuto un valido consenso da parte del paziente, il che implica che egli abbia fornito a quest’ultimo informazioni complete, aggiornate e comprensibili, tali da consentire un effettivo esercizio del proprio diritto all’autodeterminazione. In caso contrario ovvero quando non abbia reso informazioni complete o esatte, anche in ordine alle ragioni che rendono necessario o utile procedere ad un determinato trattamento, non si può ritenere che egli abbia agito rappresentandosi un valido consenso, ossia quel presupposto indispensabile per la configurazione di un errore sul fatto scusabile ai sensi dell’art. 59, comma quarto c.p.
Nel caso di specie, il compendio probatorio aveva consentito di accertare che, prima della visita, il medico non avesse informato la persona offesa dell’imminente pratica invasiva, ma soltanto della necessità di verificare che le ovaie non fossero ingrossate, così come non aveva illustrato alla paziente quale collegamento potesse esserci tra il fastidio lamentato ed una eventuale problematica ginecologica, limitandosi soltanto ad indossare i guanti e procedendo ad una “mera esplorazione” dei genitali. Peraltro, dalle indagini era emerso che, in ogni caso, non vi era la necessità clinica di procedere ad una visita ginecologica.
L’imputato, dunque, non versava in errore sul consenso presunto della paziente, perché, omettendo consapevolmente di fornire le corrette informazioni cui era tenuto, era a conoscenza dell’assenza di qualunque valido consenso della stessa al compimento dell’atto incidente sulla sua sfera della libertà sessuale. Da ciò era conseguita l’integrazione del delitto di violenza sessuale con abuso di autorità, in quanto il fatto era avvenuto previa strumentalizzazione della posizione di preminenza del sanitario.