Violazione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali e offensività in concreto

Cass. pen., Sez. Un., 16 maggio 2025, sentenza n. 18474
LA MASSIMA
“L’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982, n. 646, è configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto.”
IL CASO
L’imputato è stato condannato nei primi gradi di giudizio per omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali ex artt. 30 e 31 L. n. 646/1982, per non aver rispettato l’obbligo impostogli da tali norme, pur avendo ricevuto nell’arco di tempo rilevante i proventi della locazione di immobili e una quota parte di beni per successione ex lege (denunciata all’Agenzia delle Entrate). A riguardo, entrambe le sentenze di merito hanno distinto: irrilevante l’omessa comunicazione per le rendite derivanti da beni già di proprietà dell’imputato, mera “fruttificazione” del preesistente patrimonio immobiliare; rilevante quanto ai beni avuti per successione, con conseguente integrazione del reato contestato.
La Corte d’Appello ha affermato l’offensività in concreto, in virtù del consistente valore della quota di successione, che avrebbe reso necessario un controllo degli organi di Polizia Tributaria a ciò deputati. E ha ritenuto sussistente il dolo, poiché è richiesto quello generico, e non se ne può desumere la carenza dalla presentazione della denunzia di successione ad opera dell’erede; né può dirsi ch’egli versasse in errore inevitabile sulla norma penale ex art. 5 c.p., essendo il precetto comprensibile.
Ricorrendo in Cassazione avverso tale sentenza, l’imputato ha articolato tre motivi di gravame.
Con il primo ha dedotto vizio di motivazione riferito all’affermazione di responsabilità e alla statuizione di confisca, sempre rispetto all’offensività in concreto, che la Corte d’Appello avrebbe omesso di verificare. Ha affermato infatti che le norme incriminatrici de quibus, pur riconosciute costituzionalmente legittime dalla Consulta, contrasterebbero con il principio di proporzionalità della pena, sanzionando anche mancanze di comunicazione concretamente inoffensive, come la sua, in cui l’incremento patrimoniale non era stato occultato, ma – provenendo da successione ereditaria – dichiarato tramite atti pubblici, e pertanto risultava conoscibile. Inoltre, l’applicazione della confisca anche a beni legittimamente acquisiti avrebbe carattere meramente punitivo, non essendo correlata all’accertamento della pericolosità del bene; e comporterebbe altresì disparità di trattamento con le violazioni di cui all’art. 240-bis c.p., nelle quali la dimostrazione della legittima provenienza del bene impedisce la confisca. Infine, il ricorrente ha sottolineato che il principio applicato dai Giudici del merito per escludere dall’obbligo di comunicazione le acquisizioni che non derivino da un impiego di fondi patrimoniali da parte del condannato dovrebbe applicarsi anche alla successione ereditaria.
Nel secondo motivo di doglianza, ribadendo argomenti proposti in appello, si è dedotto un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo, giacché l’applicabilità della norma è dubbia, quanto alla necessità di comunicare incrementi patrimoniali che già risultino da atti pubblici. Tanto più che l’erede non ha nascosto tale sua qualità, come pure avrebbe potuto fare (rinunciandovi a vantaggio dei figli), se avesse voluto occultare l’incremento patrimoniale che ne conseguiva.
Con il terzo motivo, il ricorrente ha lamentato l’erronea indicazione dell’epoca di consumazione del reato (la data di deposito della dichiarazione di successione anziché della, precedente, acquisizione del patrimonio), con conseguente erronea omissione della declaratoria di prescrizione.
LA QUESTIONE
La Sezione I della Corte di Cassazione, assegnataria del ricorso, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, sottoponendo la questione «se l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646 possa ritenersi configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria». Ha rilevato, infatti, l’esistenza di un contrasto interpretativo sul punto.
Secondo l’orientamento prevalente, cui hanno aderito i Giudici di prime e seconde cure, il reato è integrato anche nel caso di acquisti per successione ereditaria o comunque soggetti a pubblicità legale (pur se rispettata), sussistendo comunque l’offensività data dall’idoneità a porre in pericolo il bene giuridico tutelato, da ravvisarsi nell’ordine pubblico. La natura di quest’ultimo – dal cui rilievo muove questo filone interpretativo – richiede infatti un controllo tempestivo delle variazioni patrimoniali di un soggetto ritenuto pericoloso in quanto già condannato per reati espressivi di particolare allarme sociale. La ratio della norma, in definitiva, è di poter accertare se tali variazioni dipendano o meno dallo svolgimento di attività illecite, o dall’attività criminosa precedente o da collegamenti ancora in essere con questa. E i problemi di ordine pubblico che ne possono derivare legittimano l’intervento statuale, che non si limita al controllo sulle operazioni, ma giunge all’ablazione del bene o del denaro.
Un diverso indirizzo, invece, valorizza – nei casi di successione ereditaria e altri atti soggetti a forme di pubblicità legale – da un lato l’assenza di un’iniziativa dell’agente, per escludere l’integrazione della ratio della fattispecie; dall’altro la pubblicità legale, per escludere il “dolo di occultamento”.
Per la soluzione del contrasto, la sezione remittente ritiene necessario un approfondimento su due aspetti in particolare: l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul principio di offensività in concreto, anche riguardo i reati di pericolo presunto; la giurisprudenza che, pur non vertendo su beni ricevuti per successione ereditaria, ha fornito letture dell’ipotesi di reato de qua orientate proprio a valorizzare detto principio, che potrebbero trovare applicazione anche per la successione ereditaria.
LA SOLUZIONE
Le Sezioni Unite, dopo una disamina della natura, dei requisiti e della portata applicativa dell’ipotesi criminosa, nonché dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sul principio di offensività, al fine di fornire una risposta al quesito interpretativo muovono dai principi espressi dalla Corte Costituzionale in tema di doverosa verifica dell’offensività in concreto dei reati di pericolo presunto (quale quello in questione), logicamente successiva a quella degli elementi costitutivi.
Con riferimento al caso di specie, rilevano che deve ritenersi definitivamente superato l’orientamento interpretativo che evocava la necessità del “dolo di occultamento”: in assenza di diversi indici testuali, invero, per l’integrazione del reato non è necessario il dolo specifico ma solo generico, che andrà provato anche quando l’inadempimento dell’obbligo di comunicazione riguardi atti sottoposti a un regime di pubblicità legale, atteso che questo non garantisce la conoscenza della variazione patrimoniale in capo all’organo titolare del potere di verifica. D’altra parte, tale soluzione discende dallo stesso tenore letterale e da una lettura sistematico-teleologica della norma, che non distingue fra diverse tipologie di atti: risulta dunque ininfluente, rispetto alla prova del dolo, la particolare modalità con cui si sia realizzata l’acquisizione patrimoniale, ferma restando ovviamente la necessità di accertare concretamente e non presuntivamente l’elemento psicologico del reato.
Sempre in punto di dolo, poi, le Sezioni Unite condividono l’affermazione che l’eventuale errore sulla sussistenza dell’obbligo si traduce in errore sul precetto e non sul fatto, con la conseguenza che solo l’inevitabilità sarebbe idonea ad escludere il più grave elemento soggettivo.
Conclude dunque la pronuncia che non vi sono categorie di atti di rilievo patrimoniale sottratti in quanto tali all’ambito di applicabilità della disposizione incriminatrice: l’omessa comunicazione di un acquisto per successione non può dunque beneficiare di una esclusione della punibilità.
Tuttavia, nonostante questa sorta di presunzione ex lege sull’astratta idoneità dell’omissione penalmente sanzionata ad esporre a pericolo il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, è sempre necessario che il giudice verifichi anche l’effettiva attitudine lesiva dell’omissione concreta. Invero, alla luce della ratio dell’incriminazione e dello stesso bene giuridico, ben potrebbero darsi casi in cui l’omessa comunicazione di acquisizioni come quelle a titolo successorio, pur astrattamente riconducibili alla fattispecie tipica in quanto oggettive variazioni della consistenza patrimoniale, sia però da ritenersi concretamente inoffensiva e dunque non punibile. Invero, per aversi offensività (anche) in concreto, la movimentazione patrimoniale deve essere icto oculi ricollegabile alla latente pericolosità del soggetto, e ciò oggetto di una specifica e puntuale motivazione.
Nella vicenda concretamente giudicata, in ogni caso, i giudici concludono constatando l’avvenuta estinzione del reato per intervenuta prescrizione, e facendone dunque discendere l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e la revoca della confisca, data la sua natura sanzionatoria.
A cura di Giordana Pepè