Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Tentativo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni: quando è configurabile il reato

Cass. pen., Sez. V, 14 marzo 2025, n. 10357

LA MASSIMA
“È configurabile il reato di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni allorché la violenza o la minaccia non sia seguita dalla realizzazione del risultato, trattandosi di un reato di evento la cui consumazione avviene solo con il raggiungimento del risultato riguardo al bene della vita, che altrimenti sarebbe stato ottenuto a mezzo dell’azione giudiziaria”.

IL CASO
La vicenda portata all’attenzione del Supremo Consesso trae origine dalla sentenza, emessa dal giudice di prime cure, che ha riconosciuto, sulla base delle dichiarazioni emerse nell’istruttoria dibattimentale, la responsabilità penale del ricorrente per i reati di cui agli artt. 81 c. 2, 56, 629 e 605 c.p., perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in un primo momento, adescava la sorella e il marito, che rinchiudeva a chiave in una stanza per un tempo considerevole (circa 20 minuti) e, successivamente, con atti diretti in modo non equivoco costringeva gli stessi a consegnargli una somma di denaro, al fine di acquistare delle sigarette. La suddetta sentenza di condanna veniva parzialmente riformata dalla Corte di Appello, la quale ha riqualificato la condotta contestata all’imputato (tentata estorsione) nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p. Avverso la decisione de qua l’imputato, per mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per Cassazione.

LA QUESTIONE
Con la sentenza in esame i giudici di legittimità – confermando l’orientamento prevalente cristallizzatosi sul punto – si sono occupati, in particolare, della delicata questione della configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone nella forma tentata.

LA SOLUZIONE
Con la decisione in commento i giudici del Supremo Consesso accolgono solo il primo motivo di doglianza, con cui il ricorrente lamenta un vizio di motivazione; difatti, si contesta ai giudici d’appello di aver sì riqualificato la condotta realizzata dal soggetto agente nel reato di cui all’art. 393 c.p. ma nella forma consumata e non già in quella tentata (come richiesto dalla difesa).
Sul punto i giuridici di legittimità ricordano che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni designa, in realtà, un reato d’evento, in cui l’evento coincide con il risultato raggiunto. Per cui, il lemma normativo “si fa” esprime la compiutezza dell’azione di violenza o minaccia che ha condotto al raggiungimento del risultato riguardo al bene della vita, che altrimenti si sarebbe raggiunto a mezzo dell’azione giudiziaria (e che nel caso posto all’attenzione della Cassazione riguarda la somma di denaro richiesta, ma non consegnata dalle persone offese).
Mediante l’affermazione di tale principio la Corte di Cassazione sposa l’orientamento prevalente – Cass. Sez. VI, n. 29260 del 17.05.2018 – il quale postula che “il concetto di farsi ragione da sé presuppone il raggiungimento dello scopo, di talché, quando si pongono in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a raggiungere tale scopo (che tuttavia non si consegue), deve trovare pacificamente spazio la ipotesi delittuosa ex art. 56 – 393 c.p.)”. A ciò si aggiunge che la soluzione ora prospettata è quella che viene, chiaramente, suggerita dal testo della disposizione normativa. E, invero, l’art. 393 c.p. nel descrivere la condotta del soggetto agente (“si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alla persone”) impiega l’indicativo presente in relazione al “farsi ragione” e, invece, il gerundio con riguardo “all’uso della violenza o della minaccia”, il che induce a ritenere che sia necessaria, per l’integrazione della fattispecie, la realizzazione del risultato perseguito.
Dunque, è configurabile l’ipotesi tentata (in luogo di quella consumata) del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni allorquando alla violenza ovvero alla minaccia attuata dal soggetto agente non corrisponde la realizzazione del risultato.
In ultima analisi, i giudici di legittimità ricordano che il reato di sequestro di persona (art. 605 c.p.) può concorre con il reato di cui all’art. 393 c.p.; e ciò perché l’evento che caratterizza il delitto di sequestro di persona è solo la limitazione della libertà personale per tempo apprezzabile, requisito totalmente estraneo alla fattispecie di cui all’art. 393 c.p.
Alla luce dei principi di diritto sopra richiamati, la Corte di cassazione annulla la sentenza limitatamente al delitto di cui all’art. 393 c.p. e rinvia, ad altra sezione della Corte d’Appello, per un nuovo giudizio sul punto (e rigetta nel resto il ricorso).