Successione normativa e limiti del giudicato esecutivo

Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio 2025, sentenza n. 19806
LA MASSIMA
“In tema di successione di leggi penali, tra l’abrogato art. 323 c.p. e il nuovo art. 314-bis c.p. sussiste un rapporto di specialità e non di eterogeneità. In sede esecutiva, il giudice deve accertare, alla luce del solo giudicato e degli atti del processo, la sussistenza in concreto degli elementi costitutivi della nuova fattispecie, senza integrarli d’ufficio.”
IL CASO
Con ordinanza del 28 febbraio 2025, il giudice dell’esecuzione presso la Corte territoriale ha rigettato l’istanza di revoca della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti di un pubblico ufficiale per il reato di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 c.p., abrogato dalla legge 9 agosto 2024, n. 114. La difesa aveva invocato l’intervenuta abolitio criminis, sostenendo che i fatti oggetto del giudicato non risultassero più penalmente rilevanti alla luce del nuovo assetto normativo.
Il giudice dell’esecuzione, tuttavia, ha ritenuto che le condotte accertate nel provvedimento definitivo potessero essere oggi sussunte nell’ambito applicativo dell’art. 314-bis c.p., introdotto contestualmente all’abrogazione dell’art. 323 c.p., configurando così una ipotesi di successione di norme incriminatrici in senso modificativo e non interamente abrogativo. In particolare, ha argomentato nel senso della sussistenza di una continuità normativa tra le due fattispecie, valorizzando il dato secondo cui l’agente – un funzionario pubblico – avrebbe avuto la disponibilità giuridica dei fondi pubblici successivamente destinati, in modo indebito, a vantaggio dei coimputati. Sulla base di tale ricostruzione, l’ordinanza ha negato che si fosse verificata una cesura normativa tale da giustificare l’eliminazione degli effetti penali della condanna.
Avverso tale decisione, la parte ricorrente ha dedotto plurimi motivi di doglianza, tra cui, in particolare, la violazione del principio di legalità e dei limiti funzionali del giudizio di esecuzione. È stato sostenuto che il giudice dell’esecuzione avrebbe illegittimamente integrato il contenuto del giudicato, attribuendo alla condotta del condannato elementi costitutivi della nuova fattispecie di reato – in particolare la disponibilità giuridica del denaro e l’indebita destinazione – non espressamente accertati nel provvedimento di merito. La difesa ha, altresì, evidenziato che nella sentenza irrevocabile non risultavano né una descrizione della condotta conforme al tipo legale di cui all’art. 314-bis c.p., né un’esplicita attribuzione del possesso o della disponibilità dei fondi al soggetto agente, condizioni entrambe imprescindibili per la configurabilità della nuova ipotesi incriminatrice.
LA QUESTIONE
La questione sottoposta all’esame della Corte di Cassazione investe due profili di centrale rilievo sistematico, entrambi afferenti alla corretta applicazione dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo e ai limiti cognitivi del giudice dell’esecuzione dinanzi a una modifica normativa incidente sulla tipicità del fatto.
In primo luogo, si tratta di stabilire se tra la fattispecie abrogata di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e la nuova incriminazione di indebita destinazione di denaro o cose mobili (art. 314-bis c.p.) possa configurarsi una relazione di continuità normativa, tale da consentire l’applicazione in sede esecutiva della nuova disposizione ex art. 2, comma 4, c.p. In tale prospettiva, la Corte è stata chiamata a valutare se le condotte distrattive già ricomprese, in via più ampia e generica, nell’abuso d’ufficio, possano oggi rientrare nel perimetro tipico della nuova norma incriminatrice, che punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio il quale destina il denaro o le cose mobili di cui abbia disponibilità giuridica a finalità diverse da quelle pubbliche cui sono vincolati.
In secondo luogo, il Collegio ha dovuto chiarire quali siano i confini interpretativi entro cui il giudice dell’esecuzione può muoversi nel compiere la verifica di compatibilità tra il fatto accertato nel giudicato e la nuova figura di reato. In particolare, si pone il problema se il giudice dell’esecuzione possa, ai fini dell’eventuale riconduzione del fatto alla nuova fattispecie, trarre dagli atti del processo elementi di fatto non espressamente contenuti nella sentenza irrevocabile (quali, ad esempio, la disponibilità giuridica del bene pubblico o la natura della condotta), ovvero se debba attenersi in via esclusiva alla ricostruzione del fatto così come contenuta nel dispositivo e nella motivazione del provvedimento definitivo.
Tale problematica si inserisce in un dibattito giurisprudenziale non pacifico: da un lato, si è ritenuto che il giudice dell’esecuzione possa ricavare dagli atti processuali i presupposti per la riqualificazione della condotta, purché resti fermo il nucleo storico del fatto accertato; dall’altro, si è affermata una linea interpretativa più rigorosa, che valorizza il principio di intangibilità del giudicato e impone al giudice dell’esecuzione di astenersi da ogni accertamento integrativo, anche ove desunto dagli atti, per non incorrere in una violazione del principio di legalità penale e del principio della separazione delle funzioni giurisdizionali tra fase cognitiva ed esecutiva.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affrontato in maniera puntuale la questione della successione normativa tra l’art. 323 c.p. (abrogato) e il nuovo art. 314-bis c.p., stabilendo che tra le due disposizioni non sussiste eterogeneità, bensì un rapporto di specialità, idoneo – in linea teorica – a fondare una continuità normativa parziale. In particolare, la nuova figura incriminatrice dell’indebita destinazione di denaro o cose mobili rappresenta, secondo la Corte, una tipizzazione più specifica e circoscritta di una porzione delle condotte precedentemente attratte nella più ampia e indeterminata categoria dell’abuso d’ufficio. Tale affermazione consente, in astratto, la possibilità di riconduzione del fatto storico alla nuova norma penale incriminatrice, con conseguente esclusione dell’effetto estintivo proprio dell’abolitio criminis.
Tuttavia, la Corte ha sottolineato con fermezza che l’accertamento della continuità normativa non può prescindere da una verifica concreta e puntuale della corrispondenza tra i tratti essenziali del fatto oggetto di condanna e gli elementi costitutivi della nuova fattispecie. Tale verifica deve avvenire in sede esecutiva, nel rispetto rigoroso del contenuto del giudicato, e può eventualmente estendersi agli atti del processo solo per ricostruire il fatto nella sua dimensione storica, senza integrazioni valutative o accertamenti ex novo da parte del giudice dell’esecuzione. È dunque precluso al giudice ogni intervento che si traduca, anche indirettamente, in una riqualificazione giuridica del fatto fondata su elementi non ricavabili dal testo della sentenza o che presupponga valutazioni probatorie ulteriori rispetto a quelle già cristallizzate nel provvedimento irrevocabile.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto viziata da un evidente difetto di motivazione l’ordinanza impugnata, la quale aveva affermato la sussistenza del requisito della “disponibilità giuridica” del denaro pubblico in capo al condannato – requisito imprescindibile ai fini della configurabilità dell’art. 314-bis c.p. – senza indicare alcun supporto argomentativo tratto dalla sentenza di merito. La pronuncia ha chiarito che la disponibilità, anche solo mediata, del denaro o delle cose mobili da parte dell’agente pubblico non può essere presunta né dedotta per implicito, ma deve risultare in modo inequivoco dal contenuto del giudicato. In difetto, l’applicazione della nuova norma in sede esecutiva risulta giuridicamente preclusa.
Sulla base di tali rilievi, la Corte ha disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza al giudice dell’esecuzione, affinché proceda a una verifica rigorosa e individualizzata della compatibilità tra ciascuna delle condotte oggetto della condanna e gli elementi strutturali del reato di indebita destinazione, muovendo esclusivamente dal contenuto della sentenza irrevocabile, da interpretarsi secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza consolidata.
La sentenza si inserisce dunque nel solco della giurisprudenza costituzionalmente orientata in materia di principio di legalità, riaffermando con nettezza i limiti funzionali e cognitivi della fase esecutiva, e scongiurando interpretazioni estensive potenzialmente lesive dei diritti fondamentali dell’imputato e del principio di separazione tra giudizio e esecuzione.
Nota a cura di Vittoria Petrolo (Criminologa – Giurista).