Stato di bisogno e usura: non è necessario accertare la totale assenza di scelta

Cass. pen., Sez. II, 2 gennaio 2025, sentenza n. 41
LA MASSIMA
“Lo stato di bisogno va inteso non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie; esso può essere di qualsiasi natura, specie e grado, non essendo richiesto dalla norma incriminatrice che il predetto stato presenti connotazioni che lo rendano socialmente meritevole.”
IL CASO
La Corte d’Appello confermava la sentenza con la quale il giudice di prime cure aveva condannato i due imputati per tentata estorsione aggravata e, solo per il primo, per usura aggravata.
Il primo ricorrente formulava diversi motivi di ricorso: contestava il compendio probatorio utilizzato dai giudici ai fini dell’affermazione della responsabilità per il reato di usura e la non sussistenza dell’aggravante dell’approfittamento dello stato di bisogno. Quanto all’affermazione di responsabilità per tentata estorsione, deduceva di non aver posto in essere la condotta materiale oggetto di addebito.
Il secondo ricorrente lamentava l’erronea applicazione della legge penale nonché il vizio motivazionale in ordine alla qualificazione giuridica del fatto come tentata estorsione anziché come esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso.
LA QUESTIONE
La questione vagliata dalla Corte di Cassazione concerne la nozione di stato di bisogno rilevante ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista all’art. 644 c.p. comma 5, n.3.
LA SOLUZIONE
La Suprema Corte ritiene entrambi i ricorsi inammissibili in quanto proposti con motivi manifestamente infondati e, in parte, anche generici.
In primo luogo, con riferimento agli elementi probatori posti a fondamento della responsabilità per il reato di usura, la Corte evidenzia come il giudice di primo grado abbia aderito al principio affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva ed oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, tuttavia, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per il dichiarante coinvolto nel fatto.
Aggiunge, poi, che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (ex multis, Cass., Sez. Un.,19 luglio 2012, n. 41461; Cass., Sez. 4, 11 febbraio 2020, n. 10153).
Rileva la Corte come, nel caso di specie, il giudice di prima cure abbia correttamente ritenuto elemento rilevante ai fini della credibilità e attendibilità delle dichiarazioni fatte dalla vittima del reato il contenuto della conversazione tra i presenti che questi, in compagnia di un parente, aveva registrato di propria iniziativa, senza alcun accordo con la polizia giudiziaria, quando incontrò il ricorrente presso il bar che gestiva: il colloquio fra i due, stante la precisione delle circostanze evocate, è stato logicamente ritenuto indicativo del rapporto usurario che si era instaurato fra i due.
Il Supremo Collegio, pertanto, ritiene la sentenza impugnata non risulta contraddittoria, ricordando a tal proposito che il vizio di contraddittorietà ha rilevanza, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., solo se presente all’interno della motivazione della decisione impugnata e consiste nel concorso, dialetticamente irrisolto, di proposizioni concernenti punti decisivi e assolutamente inconciliabili tra loro, tali che l’affermazione dell’una implichi necessariamente la negazione dell’altra e viceversa.
Evidenzia, poi, la Corte di Cassazione come i giudici di seconde cure abbiano ricordato che la persona offesa, proprietario di alcuni terreni e collaboratore dell’azienda agricola di proprietà della moglie, abbia dichiarato di avere contratto un mutuo con una banca di 90.000 euro e di essersi trovato in notevoli difficoltà economiche, tali da rendergli assai difficile il pagamento delle rate e di altri debiti, a causa di plurime grandinate che avevano danneggiato i raccolti. Lo stesso parlò espressamente del proprio stato di bisogno con il ricorrente, il quale, dunque, era ben consapevole delle ragioni che lo avevano spinto a chiedere il prestito.
Dunque, ribadisce la Corte che lo stato di bisogno va inteso non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie; esso può essere di qualsiasi natura, specie e grado, non essendo richiesto dalla norma incriminatrice che il predetto stato presenti connotazioni che lo rendano socialmente meritevole (ex multis, Cass., Sez. II,4 ottobre 2022;n. 1255; Cass., Sez. II, 25 marzo 2015, n. 18778).
Quanto al reato di tentata estorsione, oggetto di impugnazione da parte di entrambi i ricorrenti, gli Ermellini rilevano come la Corte d’appello abbia correttamente confermato la responsabilità degli imputati, considerando irrilevante chi fosse stato a pronunciare la frase minacciosa e porre in essere la condotta materiale del reato, data la presenza sul luogo del soggetto interessato a riscuotere il denaro dal proprio debitore, nonché istigatore.
Aggiunge il Supremo Consesso come il secondo ricorrente abbia formulato il proprio motivo di doglianza in modo perplesso, paventando solo la possibilità, priva, tuttavia, di un qualsiasi riscontro negli atti processuali, che il contributo concorsuale del medesimo si sia risolto “in una diversa qualificazione giuridica in favore del terzo non portatore della pretesa azionata illecitamente”.
Tale deduzione è stata ritenuta inidonea a inficiare la tenuta della motivazione della sentenza impugnata.