Qualifiche soggettive nel peculato e irrilevanza della provenienza del denaro

Cass. pen., Sez. VI, 15 settembre 2025, sentenza n. 30782
LA MASSIMA
“Il liquidatore di un ente pubblico che non riveste la qualifica di pubblico ufficiale, né di incaricato di pubblico servizio secondo i criteri di cui agli articoli 357 e 358 c.p., non può essere ritenuto responsabile del reato di peculato per l’appropriazione di somme di natura pubblica. La qualifica soggettiva non si fonda sulla provenienza pubblica delle somme gestite, ma sulla funzione concretamente esercitata dal soggetto nell’ambito dell’ente. La fattispecie incrimina colui che si appropria del bene nella sua disponibilità in ragione dell’ufficio pubblico ricoperto e non, semplicemente, l’appropriazione del bene pubblico, la cui natura non incide sulla qualifica pubblicistica dell’agente”.
IL CASO
Con la pronuncia in esame, i giudici di legittimità hanno annullato senza rinvio la sentenza di secondo grado, dichiarando il reato estinto per prescrizione previa riqualificazione del fatto in appropriazione indebita aggravata.
In particolare, i giudici d’appello confermavano la decisione del Tribunale, che aveva riconosciuto il ricorrente – liquidatore di una società privata – responsabile del reato di peculato per l’appropriazione di una somma di denaro.
L’imputato presentava ricorso in Cassazione, articolandolo in cinque motivi. Premesso che, come evidenziato dalla difesa, il ricorrente svolge funzioni di liquidatore di una società che ha cessato la sua attività, egli ha il compito di definire rapporti di debito e di credito dell’ente, privi, dunque, di alcuna connotazione pubblicistica.
Con il primo motivo di ricorso l’imputato deduce l’inosservanza ed erronea applicazione degli articoli 314, 357, 358 c.p., non essendo a lui riconducibile alcuna qualifica pubblicistica; il secondo motivo verte sul difetto di motivazione della sentenza impugnata, in ordine alla predetta violazione della norma penale, ignorata dai giudici d’appello.
Si contesta, inoltre, travisamento della prova e mancanza di motivazione in ordine alla presenza di somme di provenienza pubblica nella disponibilità della società.
Il quarto motivo di ricorso è incentrato sull’assenza di consapevolezza dell’origine pubblicistica dei fondi attinti, si contesta infatti un difetto di motivazione inerente l’incidenza sull’elemento psicologico del reato dell’accertata confusione contabile ereditata dal ricorrente.
Infine, con riferimento al rigetto della richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità si deducono violazione della legge penale e illogicità della motivazione, poiché il giudizio cui è subordinata la concessione della misura non verte sulla gravità del reato, bensì su una prognosi di reiterabilità dello stesso, che non può desumersi dalla mancata restituzione delle somme apprese.
LA QUESTIONE
La questione verte sulla corretta interpretazione della fattispecie di peculato, con particolare riferimento alla rilevanza, ai fini della sua configurabilità, della natura pubblicistica della funzione esercitata dall’agente e non delle somme oggetto di apprensione.
LA SOLUZIONE
La Cassazione accoglie il ricorso annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado, sul presupposto che l’imputato non riveste alcuna qualifica pubblicistica in occasione delle appropriazioni in questione. Pertanto, in assenza dell’esercizio di funzioni pubblicistiche la condanna del ricorrente per peculato è da considerarsi illegittima.
La circostanza che le somme oggetto di appropriazione abbiano natura pubblicistica, poiché di provenienza ministeriale e a destinazione vincolata, trattandosi di aiuto alle imprese a rischio finanziario, non è sovrapponibile alla connotazione pubblicistica di cui all’art. 314 c.p.
L’imputato non è qualificabile come agente pubblico in ragione della provenienza pubblica delle somme oggetto di appropriazione, avendo egli funzioni di liquidatore dell’ente.
Integra il reato di peculato la condotta del pubblico agente che si appropria di denaro o altra cosa mobile, nella sua disponibilità in ragione dell’ufficio pubblico ricoperto; ai fini della configurabilità del reato rileva la qualificazione soggettiva dell’agente e non la natura “pubblica” del bene di cui l’agente si è impossessato.
Per l’attribuzione della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, occorre considerare la connotazione oggettiva e funzionale dell’attività concretamente svolta dall’agente.
Anche la residuale ipotesi prospettata di responsabilità del ricorrente per il reato di peculato, in concorso con il presidente del consiglio di amministrazione dell’ente consortile, viene giudicata dalla Suprema Corte una ricostruzione del fatto non condivisibile. L’imputato ha infatti appreso le somme di denaro in ragione del suo ruolo di liquidatore dell’ente e non in forza di accordi intercorsi con altri soggetti qualificati. Inoltre, nei confronti dell’amministratore è stata pronunciata in appello definitiva declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in relazione al delitto di peculato.
La condotta appropriativa contestata, non sussistendo alcuna qualificazione pubblicistica del ricorrente, deve, pertanto, essere riqualificata nella fattispecie di appropriazione indebita aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 11, c.p. per l’abuso delle funzioni di liquidatore dell’ente, dovendosi dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato per decorrenza del relativo termine massimo.
Nota a cura di Emilia Bruno, dottoressa di ricerca