Post diffamatorio e causa di non punibilità della provocazione

Cass. Pen., Sez. V, 3 giugno 2025, sentenza n. 20392
LA MASSIMA
“In tema di diffamazione, ai fini dell’operare della causa di non punibilità della provocazione di cui all’art. 599 c.p., la contiguità temporale tra il fatto ingiusto e il conseguente stato d’ira può operare anche ove determinati accadimenti, di carattere oggettivo, rinnovino nell’autore della condotta il sentimento di rabbia correlato al fatto ingiusto avvenuto precedentemente”.
IL CASO
La vicenda in esame trae origine dal ricorso avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello aveva confermato la decisione di condanna dell’imputata per il delitto di diffamazione aggravata in danno di un veterinario – già condannato per maltrattamento di animali- derivante dall’aver offeso la reputazione di questo pubblicando sul proprio profilo Facebook un post del tenore offensivo corredato da una foto dello stesso.
Avverso la richiamata sentenza l’imputata ha proposto ricorso per Cassazione formulando due motivi di impugnazione: 1) inosservanza o erronea applicazione dell’art.595 c.p., evidenziando che i fatti non potrebbero essere sussunti sotto la predetta norma incriminatrice bensì rientrerebbero semmai nella condotta, ormai priva di rilevanza penale, di ingiuria seppur rivolta a più persone, in quanto la vittima doveva considerarsi presente quando sono state formulate le accuse nei suoi confronti, con conseguente possibilità di replica immediata, essendo le stesse state effettuate sulla propria bacheca Facebook.; 2) congruità ed esistenza stessa della motivazione della decisione impugnata laddove la sentenza non ha considerato l’assenza del dolo, l’esimente dell’esercizio del diritto di critica di fronte a fatti comunque veritieri, per come riportati all’epoca dagli organi di stampa, né -ulteriormente – quella della provocazione correlata alla pubblicazione lo stesso giorno nella pagina Facebook del post che annunciava il prossimo rientro al lavoro del veterinario ritenuto tra i colpevoli dei fatti avvenuti presso il canile.
LA QUESTIONE
La Corte di Cassazione ha ritenuto non fondato il primo motivo e in parte fondato il secondo motivo. In particolare, la Corte si è soffermata sulla differenza tra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone e delitto di diffamazione, sul requisito della continenza – quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica – nonché sulla causa di non punibilità della provocazione di cui all’art. 599 c.p.
LA SOLUZIONE
I Giudici della Suprema Corte di Cassazione in primo luogo hanno rilevato che, in assenza della presenza della persona offesa, la giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto integrato il delitto di diffamazione e non quello dell’ingiuria, sia nell’ipotesi di messaggi di posta elettronica indirizzati a più persone, tra cui l’offeso, stante la non contestualità del recepimento del messaggio, sia, in taluni casi, nei casi di chat nelle quali l’offesa non fosse stata percepita nell’immediatezza dalla vittima in quanto non collegata al momento del recapito. Pertanto, la pubblicazione di un post offensivo a mezzo Facebook può essere considerata ingiuria aggravata e non diffamazione solo ove la presenza della vittima risulti con certezza dalla sua contestuale reazione al post. Il che non si è verificato nella fattispecie in esame, nella quale la persona offesa ha saputo del messaggio offensivo della propria reputazione solo in un momento successivo alla pubblicazione dello stesso da parte di un amico e, non essendo iscritto al social Facebook, vi ha acceduto attraverso l’account della moglie.
Inoltre, la Suprema Corte ha rammentato la consolidata giurisprudenza secondo la quale l’esimente del diritto di critica, sebbene correlata al fondamentale esercizio della libera manifestazione del pensiero, postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e non trasmodante nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione. Dunque, il rispetto del canone della continenza esige che le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione, e non si traducano, pertanto, in espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Dunque, il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato.
Infine, la Corte ha affermato che la causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2, c.p. sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integri gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando questo leda le regole di civile convivenza in modo apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo. Ha infatti evidenziato il Collegio che, è vero che la provocazione opera quale esimente della condotta diffamatoria solo se si realizza “subito dopo” il fatto ingiusto quale reazione rispetto a questo; sicché, pur nella elasticità con cui dev’essere interpretata in relazione a ciascuna fattispecie, non può trascurarsi il nesso eziologico tra fatto ingiusto e stato d’ira, dovendo sussistere, tra l’insorgere della reazione ed il fatto ingiusto altrui, un’effettiva contiguità temporale. Tuttavia, la contiguità temporale tra il fatto ingiusto e il conseguente stato d’ira può operare anche ove determinati accadimenti di carattere oggettivo rinnovino all’autore della condotta il sentimento di rabbia correlato al fatto ingiusto avvenuto precedentemente.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, in quanto l’imputata non è stata ritenuta punibile ai sensi dell’art.599 c.p.
Nota a cura di Anna Libraro