Maltrattamenti in famiglia e genitorialità condivisa

Cass. pen., Sez. VI, 7 febbraio 2025, sentenza n. 5026
LA MASSIMA
“In tema di maltrattamenti in famiglia, la mera genitorialità condivisa, al di fuori di un rapporto di coniugio o di convivenza e in assenza di contatti significativi fra l’autore delle condotte e la vittima, non può costituire, da sola, il presupposto per ritenere sussistente un rapporto “familiare” rilevante ai fini della configurabilità del reato.”
IL CASO
La Corte di appello confermava la sentenza di condanna resa in primo grado nei confronti di un imputato ritenuto colpevole dei delitti di maltrattamenti in famiglia aggravati e lesioni personali.
La difesa del prevenuto proponeva tempestivo ricorso per Cassazione avverso la prefata pronuncia, articolando
l’impugnazione in tre distinti capi.
Con il primo motivo di gravame, di preminente interesse in questa sede, il ricorrente deduceva la violazione dell’art. 572 c.p., evidenziando che il reato di maltrattamenti era stato riconosciuto anche in relazione al periodo successivo alla definitiva interruzione della convivenza con la persona offesa.
Assumeva che la Corte territoriale si era erroneamente discostata dal principio in cui, in assenza di rapporto di coniugio, il reato di cui all’art. 572 c.p. presupponga necessariamente la stabilità della convivenza, non potendosi neppure ritenere sufficiente, in tal senso, la mera esistenza di una genitorialità condivisa di figli minori.
LA QUESTIONE
È richiesto alla Corte di Cassazione di chiarire se il rapporto di filiazione, pur implicando una più o meno stretta forma di collaborazione tra i genitori, non può ritenersi ex se idoneo a fondare l’esistenza di un rapporto familiare di rilevanza tale che possa dirsi integrato il presupposto applicativo richiesto dall’art. 572 c.p. ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti.
LA SOLUZIONE
La Suprema Corte impernia la disamina del proposto gravame sulla principale delle censure articolate dal ricorrente, avente ad oggetto l’affermazione secondo cui, in mancanza di rapporto di coniugio, il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe configurabile a carico del convivente more uxorio anche dopo la cessazione della convivenza, ove l’autore del reato e la persona offesa condividano la genitorialità di prole minorenne.
Osserva la Corte che trattasi di soluzione esegetica già recepita, in passato, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, ma che successivamente è stata oggetto interpretazioni di diverso tenore.
Ciò premesso, valorizzando il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, la Cassazione precisa che si è sovente ritenuto che il concetto di convivenza presupponga una radicata e stabile relazione affettiva, caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo. Pertanto, i concetti di famiglia e di convivenza vanno intesi nell’accezione più ristretta, presupponendo una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza d’affetti che implichi, non solo reciproche aspettative di mutua assistenza, ma sia anche fondata sul rapporto di coniugio, di parentela, o comunque si una stabile condivisione dell’abitazione, anche se non necessariamente continua.
A mente della Suprema Corte, da tanto discende che se nell’ipotesi in cui viene meno la convivenza non sussiste spazio per la fattispecie che è caratterizzata dalla necessaria esistenza di rapporti definiti dalla legge come familiari o connotati ca comune convivenza, in egual modo non può assegnarsi penale rilevanza alla mera genitorialità condivisa. Quest’ultima, infatti, in assenza di contatti significativi tra autore delle condotte e persona offesa, implica rapporti unidirezionali da parte di ciascun genitore nei confronti del figlio, non creando alcun autonomo o ulteriore rapporto che possa definirsi di tipo familiare tra il padre e la madre.
Parimenti, deve escludersi che la previsione di cui all’art. 337 c.c., che non prevede alcun rapporto reciproco tra i genitori del comune figlio, deponga per la sussistenza di un contesto di tipo familiare tra le parti.
Orbene, la Cassazione argomenta sottolinea che tale norma civilistica, sebbene usualmente evocata dalla stessa giurisprudenza di legittimità per corroborare la sussistenza di un rapporto familiare in ipotesi di comune genitorialità, non può ritenersi condivisibile ed applicabile al caso di specie.
Invero, l’art. 337 c.c. si limita a riconoscere al figlio minore il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale; quanto innanzi, non implica in alcun modo un perdurante rapporto di natura familiare tra i genitori.
Quanto testé esposto consente alla Corte di affermare che il rapporto di filiazione, pur implicando una più o meno stretta forma di collaborazione tra i genitori, non può ritenersi ex se idoneo a fondare l’esistenza di un rapporto significativo tra i due, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 572 c.p.
Muovendo da tale prospettiva ermeneutica, e volgendo alla vicenda oggetto del ricorso, la Cassazione ritiene che il giudice di secondo grado abbia erroneamente ritenuto la configurabilità del reato in parola richiamando il richiamato principio giurisprudenziale ormai ritenuto superato dalla Suprema Corte. Ciò nonostante, la Corte di appello ha comunque dato atto che l’imputato aveva mantenuto rapporti con la persona offesa in relazione al figlio minore.
Trattandosi, pertanto, di un aspetto necessariamente meritevole di approfondimenti, sarà onere del giudizio di rinvio stabilire se i rapporti tra gli ex conviventi, dettati dalla necessità di esercitare la genitorialità, siano stati di intensità tale da far ritenere perdurante un rapporto di familiarità.
Ebbene, nell’annullare la gravata sentenza, rinviando per nuovo giudizio ad altra sezione del Collegio territoriale, la Corte di Cassazione chiarisce che la necessaria indagine dovrà essere scrupolosamente compiuta individuando, in concreto, se e quale sia stata l’intensità dei contatti e le modalità degli stessi, dovendosi ritenere che, solo ove si riscontri una reiterazione di frequentazione tra l’imputato e la persona offesa, per periodi di tempo apprezzabili, continuativi e prolungati, sarà possibile ritenere la perdurante configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia.