Cedu, Diritto Penale, Sentenze

L’ergastolo ostativo impedisce ogni progresso del detenuto “non collaborante” nel percorso di reinserimento graduale nella società?

CEDU, Sez. I, 13 giugno 2019, ricorso n. 77633/16, Viola c. Italia
IL CASO
La Corte di Strasburgo si è occupata di dirimere una vicenda che è stata sottoposta alla sua cognizione mediante il ricorso n. 77633/17, proposto – in data 12 dicembre 2016 – dal sign. Marcello Viola avverso la Repubblica italiana. Il ricorrente – detenuto presso la casa circondariale di Sulmona – lamentava la violazione dell’art. 3 Cedu da parte dell’art. 4 bis l. n. 354 del 26 luglio 1975, nella parte in cui non prevede che il permesso premio possa essere concesso ai condannati all’ergastolo che non abbiano collaborato con la giustizia o la cui situazione non rientri nei casi di collaborazione “impossibile” o “inesigibile”.
LA QUESTIONE
Marcello Viola, coinvolto nei recrudescenti avvenimenti che contraddistinsero il periodo (noto alla cronaca) come “la seconda faida di Taurianova”, fu condannato dalla Corte d’Assise di Palmi ad una pena di quindici anni di reclusione per associazione di stampo mafioso. Ammontare di pena che fu ridotta nella misura di dodici anni nel successivo giudizio celebrato innanzi la Corte di Assise d’appello di Reggio Calabria, senza che seguisse, da parte del ricorrente, un ricorso in Cassazione. Marcello Viola si vide altresì protagonista in veste d’imputato di un altro processo – noto come processo Taurus – avente ad oggetto altri fatti criminali (associazione di tipo mafioso, omicidio, sequestro di persona con morte del sequestrato, detenzione illegale d’armi da fuoco) per i quali, in data 22 settembre 1999, la Corte di Assise di Palmi gli irrogò la pena dell’ergastolo. La decisione fu confermata in sede d’appello il 5 marzo 2002. Il ricorso in Cassazione del ricorrente fu rigettato il 26 febbraio 2004. A fronte della domanda volta alla rideterminazione della pena complessiva, basata sulla continuazione tra i fatti criminali posti a fondamento del primo processo e quelli scatenanti il secondo (processo Taurus), il 12 dicembre 2008 la Corte di Assise di appello di Reggio Calabria ritenne configurabile l’unicità del disegno criminoso e riconobbe la continuazione dei fatti oggetto dei due processi. La pena complessiva fu quindi ricalcolata e rideterminata nell’ergastolo con isolamento diurno per due anni e due mesi.
Il ricorrente, durante il regime carcerario, chiese di vedersi concesso per ben due volte un permesso premio (beneficio riconosciuto ai detenuti in presenza di determinate condizioni): nella prima occasione, il magistrato di sorveglianza dell’Aquila ebbe a respingerla rimarcando la regola in forza della quale per le persone condannate all’ergastolo per uno dei delitti previsti dall’art. 4 bis della l. n. 354 del 26 luglio 1975, in caso di “mancata collaborazione con la giustizia” non è possibile acconsentire al riconoscimento di alcuna misura premiale. Il Tribunale di Sorveglianza, adito successivamente dal ricorrente, ugualmente respinse la domanda di permesso premio motivandola, tra le varie ragioni, anche per difetto della condizione della “collaborazione con la giustizia”. L’ordinanza del TdS fu confermata dalla Corte di Cassazione in data 7 novembre 2012. Nella seconda occasione, la domanda di permesso premio fu respinta dal magistrato di sorveglianza dell’Aquila il 4 giugno 2015 e poi dal TdS della stessa città il 13 ottobre 2015, a causa della mancata collaborazione con le autorità. Il Tds dell’Aquila, con ordinanza del 26 maggio 2015 sorretta da motivazioni in parte analoghe a quelle contenute nei precedenti provvedimenti, respinse altresì una domanda di liberazione condizionale (ai sensi dell’art. 176 c.p.) sottoposta alla sua cognizione dallo stesso ricorrente. (La Corte di Strasburgo riassumeva il punto rammentando che“ …il Tribunale rilevò che, ai condannati all’ergastolo per uno dei delitti previsti dall’articolo 4 bis, la legislazione offriva una concreta possibilità di liberazione, dal momento in cui l’esecuzione della pena aveva raggiunto il suo scopo e quindi il condannato poteva reinserirsi nella società. Secondo il TdS, questa possibilità era subordinata al verificarsi della condizione della rottura definitiva del legame tra il condannato e l’ambiente mafioso, che doveva esprimersi, in pratica, con una utile collaborazione con la giustizia.) Contro tale decisione, il ricorrente propose un ricorso in Cassazione, chiedendo di sollevare la questione di legittimità costituzionale avverso l’automatismo previsto dall’art. 4 bis della l. ord. pen. per i detenuti non collaboranti: con sentenza n. 1153 del 2016 del 22 marzo 2016, il Supremo Consesso rigettò il ricorso del ricorrente, motivando, relativamente alla questione di costituzionalità, con il richiamo alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale: “il fatto di subordinare la concessione della liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia non contrastava con la funzione rieducativa della pena. Secondo la Corte costituzionale, la scelta di collaborare con la giustizia era infatti lasciata alla libera valutazione del condannato, senza che vi fosse alcuna forma di costrizione. Riguardo all’innocenza lamentata dal ricorrente, la Suprema Corte fece riferimento ad un’altra sentenza della Corte costituzionale (n. 306/1993), con la quale quest’ultima aveva sostenuto che il regime dell’articolo 4 bis non pregiudicava il condannato che protestava la sua innocenza, in quanto siffatta evenienza rivestiva significato giuridico unicamente all’interno della procedura di revisione della sentenza di condanna. Infine, la Corte di Cassazione sottolineò il carattere assoluto della presunzione di pericolosità sociale, in caso di mancanza della collaborazione con la giustizia. Secondo la Suprema Corte, il legislatore era libero di fissare le condizioni per la liberazione delle persone condannate per delitti particolarmente gravi, come quelli collegati al fenomeno mafioso. La Suprema Corte precisò che, nel caso di pena all’ergastolo entro il regime di cui all’art. 4 bis, il condannato presentava una maggiore pericolosità valutata rispetto al delitto commesso, non già per la sua personalità. E aggiunse che il legislatore chiedeva, in modo legittimo, la prova positiva della rottura definitiva del legame dell’individuo con il gruppo mafioso di provenienza”.
La Corte di Strasburgo, chiamata ad esprimersi sulla suddetta quaestio giuridica, dopo aver rammentato, in via preliminare, il reticolato di disposizioni normative italiane ed europee e le rispettive prassi applicative, è giunta a statuire l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo, cioè dell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. – che, in relazione alla concessione del permesso premio, ne preclude l’accesso, in senso assoluto, a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen. – con l’art. 3 della Cedu. La Corte ha cioè ritenuto che l’assenza della “collaborazione con la giustizia” determini una presunzione assoluta di pericolosità, che ha per effetto quello di privare il ricorrente di ogni prospettiva realistica di liberazione (si veda, tra altre, Harakchiev e Tolumov e Matiošaitis e altri), sicché il ricorrente rischia di non potersi mai riscattare qualsiasi cosa faccia in carcere: “il ricorrente si trova nella impossibilità di dimostrare che non vi è più alcun motivo legittimo di ordine penologico a giustificazione del suo mantenimento in detenzione e che, pertanto, ciò è contrario all’articolo 3 della Convenzione, dato che, disponendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale (paragrafi 116 e 120), il regime in vigore collega in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i delitti sono stati commessi, invece di tener conto del percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti dalla condanna.” Pertanto, l’intervento del giudice, secondo la lettura interpretativa della Corte europea, è in questo senso limitato alla constatazione del mancato rispetto della condizione della collaborazione, senza che possa effettuare una valutazione del percorso individuale del detenuto e della sua evoluzione verso la risocializzazione.
LA SOLUZIONE
“La Corte riconosce certamente che i delitti per i quali il ricorrente è stato condannato riguardano un fenomeno particolarmente pericoloso per la società. Nota anche che l’introduzione dell’articolo 4 bis è il risultato della riforma del regime penitenziario del 1992 e che tale riforma è avvenuta in un contesto emergenziale, dove il legislatore è stato chiamato a intervenire in seguito a un episodio estremamente drammatico per l’Italia, in una situazione particolarmente critica. Detto questo, la lotta contro tale flagello non dovrebbe giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che proibiscono in termini assoluti le pene inumane e degradanti. Pertanto, dalla visuale dell’art. 3, la natura dei reati per cui è stato condannato il ricorrente non è rilevante per l’esame del presente caso (Öcala, citata, §§ 98 e 205, e la giurisprudenza ivi richiamata). (…) Tenuto conto dei principi e delle ragioni esposte sopra, la Corte considera che la pena perpetua alla quale è soggetto il ricorrente, in virtù dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ossia il cd. “ergastolo ostativo”, limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione.”