Il “quid pluris” del delitto di riciclaggio rispetto alla semplice ricettazione

Cass. pen., Sez. II, 8 maggio 2025, sentenza n. 17472
LA MASSIMA
“Si configura il delitto di riciclaggio anche in presenza di attività che, pur non mutando l’essenza del bene di provenienza delittuosa, costituiscono un quid pluris rispetto alla semplice ricezione del bene e siano però caratterizzate dal frapporre ostacoli concreti all’identificazione del bene quale provento di precedente delitto.”
IL CASO
La vicenda trae origine dalla condanna in primo grado e dalla successiva conferma in appello dell’imputato per il delitto di riciclaggio ex art. 648-bis c.p., in relazione al possesso di un autocarro di provenienza delittuosa. La difesa articolava il ricorso per Cassazione prospettando plurime censure. Anzitutto, la violazione dell’art. 192 c.p.p. per l’asserita inattendibilità della persona offesa del reato presupposto, nonché un travisamento della prova derivante dal mancato apprezzamento della testimonianza resa da un terzo soggetto, che avrebbe assistito alla compravendita del veicolo. In secondo luogo, veniva contestata la sussistenza dell’elemento oggettivo del delitto, assumendo che la mera rimozione delle targhe non potesse costituire condotta idonea ad ostacolare l’identificazione del mezzo. Da ultimo, veniva prospettata la possibilità di qualificare la condotta in termini di tentativo ex art. 56 c.p., in quanto, a detta della difesa, non si sarebbe perfezionata l’integrale attività di occultamento.
LA QUESTIONE
La questione dirimente affrontata dalla Suprema Corte attiene all’individuazione del perimetro applicativo dell’art. 648-bis c.p., con specifico riguardo alla nozione di condotte “idonee ad ostacolare l’identificazione” della provenienza delittuosa del bene.
Si trattava, dunque, di stabilire se la rimozione delle targhe da un veicolo di provenienza furtiva e la loro collocazione all’interno di un altro mezzo potessero assurgere a condotta tipica ai fini della configurazione del reato di riciclaggio.
Contestualmente, si poneva all’attenzione della Suprema Corte la questione circa la possibilità di qualificare la condotta nei termini del tentativo punibile ex art. 56 c.p.
LA SOLUZIONE
Nella decisione de qua, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, ritenendo le doglianze sollevate manifestamente infondate e, in parte, non deducibili nel giudizio di legittimità.
Con riguardo al primo motivo, la Suprema Corte ha ribadito il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., le censure sulla valutazione delle prove possono essere sindacate solo nei limiti della manifesta illogicità della motivazione, non potendo risolversi in una diversa lettura del compendio probatorio. La ricostruzione offerta dai giudici di merito, fondata sulla mancata indicazione da parte dell’imputato di qualsivoglia dato identificativo del venditore, sul pagamento in contanti e sulla rimozione delle targhe del veicolo, è stata ritenuta logicamente coerente e immune da vizi logico – giuridici.
Quanto all’elemento oggettivo del reato, la Corte ha valorizzato la natura a forma libera della fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p., rilevando come non sia richiesta una trasformazione materiale del bene né un’opera particolarmente elaborata di dissimulazione della sua origine illecita. È sufficiente, infatti, che la condotta presenti un quid pluris rispetto alla mera ricezione, purché connotata dall’idoneità – anche solo potenziale – a frapporre ostacoli all’identificazione del bene quale provento di reato. A tali fini, la collocazione delle targhe del veicolo all’interno di un altro mezzo, anch’esso nella disponibilità dell’imputato, è stata ritenuta indicativa di una condotta concretamente finalizzata a interrompere il nesso di riconducibilità tra il bene e la sua provenienza delittuosa, integrando così il requisito di tipicità richiesto dalla norma penale incriminatrice.
La Corte ha altresì richiamato il consolidato orientamento secondo cui è sufficiente che le attività poste in essere risultino astrattamente idonee ad ostacolare anche solo parzialmente la tracciabilità del bene, senza che sia necessario che tale tracciabilità risulti integralmente impedita.
Quanto al terzo motivo, relativo alla configurabilità della forma tentata del reato, i giudici di legittimità hanno precisato che, pur essendo astrattamente ipotizzabile il tentativo nel delitto di riciclaggio – non trattandosi di reato a consumazione anticipata – tale qualificazione non risultava predicabile nel caso di specie.
La Corte ha infatti evidenziato come l’azione criminosa avesse già realizzato l’effetto impeditivo richiesto dalla norma incriminatrice, attraverso la sottrazione dei segni identificativi e la loro collocazione in altro contesto, rendendo superfluo ogni ulteriore passaggio materiale.
Per tali ragioni, la Corte ha confermato le decisioni di merito, ritenendo che le condotte accertate integrassero pienamente la fattispecie consumata di riciclaggio, condannando infine il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.
A cura di Leonarda Difonte