Il luogo di lavoro: quando diventa “privata dimora” ai fini dell’art. 624-bis c.p.

Cass. Pen., Sez. V, 12 settembre 2025, sentenza n. 30621
LA MASSIMA
“Al fine di ritenere che il fatto sia avvenuto in una “privata dimora” occorre, dunque, che il luogo in cui è stato commesso il furto abbia, per sua struttura o per l’uso che ne è stato fatto in concreto, una destinazione legata e riservata all’esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari, ma identificabili anche in attività produttive, professionali, culturali, politiche. Deve cioè trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per taluna delle finalità predette”.
IL CASO
L’imputata, condannata in primo e in secondo grado per il delitto di tentato furto nell’ufficio privato di una farmacia, proponeva ricorso in Cassazione lamentando la mancata derubricazione del contestato furto aggravato ex art. 624-bis c.p. nella fattispecie semplice, non essendo stati evidenziati– a dire della stessa –nella sentenza impugnata elementi utili per equiparare il luogo in cui è stato perpetrato il tentato furto a un ufficio privato.
LA QUESTIONE
Il quesito sottoposto alla Suprema Corte è il seguente: se, ed eventualmente a quali condizioni, i luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di “privata dimora”.
Sul punto viene richiamato il precedente delle Sezioni Unite cd. D’Amico (22 giugno 2017, n. 31345), alle quali era stato rimesso il compito di definire sei luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di “privata dimora”, ai fini della configurabilità del furto aggravato di cui all’art. 624-bis c.p. In tale sede si è evidenziato che, dando per assodato che la nozione di “privata dimora” è certamente più ampia di “abitazione”, un luogo può essere classificato come “privata dimora” alla presenza di tre condizioni: “a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare”.
Quindi, secondo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, il luogo di lavoro non costituisce, di per sé, “privata dimora”, ma a esso può comunque estendersi la disciplina dettata dall’art. 624-bis c.p. se il fatto, pur se commesso all’interno di un luogo adibito ad attività professionale e lavorativa, è avvenuto in un’area destinata, non occasionalmente, alla sfera privata della persona offesa e non aperta al pubblico, né accessibile a terzi senza il consenso del titolare.
LA SOLUZIONE
La Suprema Corte, senza discostarsi dal principio di diritto oramai consolidato, e applicandolo anche al caso de quo, ha ritenuto che nessuna censura possa essere mossa alla sentenza della Corte d’Appello in quanto la titolare della farmacia, in qualità di persona offesa, aveva dichiarato di aver visto l’imputata intenta a rovistare nella sua borsa all’interno del suo ufficio privato. Il tentato furto, pertanto, è avvenuto in un locale che non era destinato ai contatti con la clientela, ma in un’area che, per la sua struttura e per le sue finalità (ufficio privato) era destinato a essere utilizzato per esplicazioni di attività proprie della vita privata della farmacista in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne.
Il ricorso, pertanto, è stato rigettato, non evidenziandosi censure nella sentenza impugnata che, invece, ha valorizzato e correttamente applicato siffatto principio.
Nota a cura dell’avv. Elisa Visintin (avvocato)