Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Furto in abitazione ex art. 624-bis c.p. e nozione di “privata dimora”

Cass. pen., Sez. V, 10 luglio 2025, sentenza n. 25550

LA MASSIMA

“In tema di furto in abitazione, rientra nella nozione di “privata dimora” ex art. 624-bis c.p. anche l’area di proprietà privata, pertinenza di uno studio professionale, dotata di videosorveglianza e non accessibile al pubblico senza il consenso del titolare, a nulla rilevando la momentanea apertura del cancello di ingresso al momento del fatto”.

IL CASO

Avverso la sentenza di secondo grado, confermativa della condanna pronunciata dal giudice di prime cure, l’imputato, ritenuto responsabile del reato di furto in abitazione ex art. 624-bis c.p., per essersi impossessato di beni custoditi all’interno di un borsone appoggiato su un motociclo parcheggiato in un’area privata pertinenza di uno studio medico, proponeva ricorso per Cassazione.

Con l’unico motivo dedotto, la difesa lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del fatto nell’ipotesi di furto semplice di cui all’art. 624 c.p., già sollecitata con l’atto di gravame. A sostegno della censura veniva richiamato l’indirizzo interpretativo affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 31345 del 23 marzo 2017, secondo il quale la nozione di privata dimora, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 624-bis c.p., deve ritenersi circoscritta a quei luoghi, anche destinati ad attività lavorativa, che siano riservati alla sfera privata della persona offesa, non aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare.

Nel caso di specie – secondo la prospettazione difensiva – tali requisiti sarebbero mancati, atteso che l’area in cui era parcheggiato il motociclo, antistante lo studio medico, al momento del fatto si trovava in orario di chiusura, risultava priva di recinzione o cancello ed era liberamente accessibile al pubblico.

LA QUESTIONE

La Corte di legittimità è stata chiamata a pronunciarsi sulla corretta interpretazione della nozione di “privata dimora” rilevante ai fini dell’applicazione della fattispecie di cui all’art. 624-bis c.p., con specifico riferimento alle ipotesi in cui la condotta di sottrazione venga posta in essere all’interno di aree di proprietà privata, funzionalmente collegate a un luogo destinato ad attività lavorativa, ma che risultino temporaneamente accessibili a terzi al momento del fatto. In particolare, si chiedeva alla Corte di definire i confini applicativi del concetto di “privata dimora”, soprattutto alla luce dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza D’Amico (n. 31345/2017), secondo cui tale qualifica può essere riconosciuta solo a quei luoghi — anche non abitativi — che siano destinati in modo non occasionale allo svolgimento di atti della vita privata e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare.

LA SOLUZIONE

Rigettando il ricorso per infondatezza del motivo di gravame sollevato dalla difesa, il Supremo consesso ha colto l’occasione per offrire una disamina articolata della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 624-bis c.p., muovendo dal dato normativo per poi ripercorrere i principali approdi della giurisprudenza di legittimità in materia.

La ratio della fattispecie di cui all’art. 624-bis c.p. – che incrimina chi si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa – risiede nell’esigenza di offrire una tutela rafforzata oltre che alla privata dimora, anche luoghi costituenti funzionalmente ad essa collegati. Ciò è immediatamente deducibile dal tenore letterale della norma, essendo esplicita l’estensione del perimetro della fattispecie alle ipotesi in cui il fatto venga posto in essere in luoghi adibiti in maniera cronologicamente apprezzabile allo svolgimento di atti della vita privata, pur non rientrando questi nella tradizionale nozione di “abitazione” (strettamente deputata a definire spazio entro il quale si svolge la vita familiare e intima).

In questo senso si è consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la nozione di “privata dimora” è più ampia rispetto a quella di mera abitazione, essendo la prima suscettibile di includere qualsiasi luogo nel quale il soggetto compia, anche transitoriamente o contingentemente, atti della propria sfera privata (Sez. 5, n. 30957/2010, Cirlincione; Sez. 5, n. 2768/2015). Tra tali spazi rientrano anche studi professionali, esercizi commerciali e stabilimenti industriali, laddove si configuri un rapporto di continuità e riservatezza con il titolare, estraneo alla mera occasionalità.

A comporre e sistematizzare tale evoluzione interpretativa sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza D’Amico (n. 31345 del 23 marzo 2017): nell’ambito del tessuto motivazionale della stessa, il Supremo Consesso ha compendiati presupposti per la configurabilità del reato di furto in abitazione, anche con precipuo riferimento a luoghi diversi dall’abitazione in senso stretto. Segnatamente è stato chiarito che, ai fini dell’applicazione dell’art. 624-bis c.p., è necessario che i luoghi in cui si consuma il fatto criminoso siano deputati allo svolgimento di atti della vita privata, ancorché non domestica, in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne di, che tra la persona offesa e il luogo sussista un rapporto di stabilità e, infine, che il luogo non sia accessibile a terzi solo previo consenso del titolare. A nulla rileva che l’azione furtiva sia commesso in orario di apertura o di chiusura, o che nel luogo in questione vi siano persone presenti: ciò che rileva è la vocazione del sito a sede della vita privata o professionale, nonché la possibilità per il titolare di accedervi in ogni momento, esercitando il proprio ius excludendi.

In applicazione di tali criteri testé richiamati, la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza di secondo grado, che aveva qualificato il fatto come furto in abitazione, rilevando che il giudice a quo avesse pienamente accertato – con motivazione immune da vizi – che il furto era stato commesso all’interno di un’area privata, di proprietà della persona offesa, dotata di videosorveglianza, delimitata da un cancello e destinata in via stabile e non occasionale all’attività lavorativa svolta presso lo studio medico.

L’area interessata, pur essendo materialmente accessibile al momento del fatto (essendo il cancello aperto), non era aperta al pubblico, poiché l’ingresso era comunque riservato a soggetti autorizzati. La configurabilità del vincolo pertinenziale con lo studio medico risultava altresì giustificata dalla strumentalità funzionale e dalla contiguità materiale tra i beni, nonché dalla comune titolarità soggettiva.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha affermato che l’area in cui era parcheggiato il motociclo oggetto dell’azione furtiva rientrava nel concetto di privata dimora ai sensi dell’art. 624-bis c.p., configurandosi quale pertinenza di un luogo di lavoro ad uso esclusivo del titolare e non accessibile senza il suo consenso.

Nota a cura di Tiziana Cassano