Fine vita: la Consulta conferma la legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., come corretto dalla sentenza n. 242/2019

Corte Cost., 20 maggio 2025, sentenza n.66
LA MASSIMA
È costituzionalmente legittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce la condotta di aiuto al suicidio anche nei confronti di persona affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, capace di prendere decisioni libere e consapevoli e che abbia manifestato la volontà di porre fine alla propria vita, anche qualora non sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, secondo valutazione medica.
IL CASO
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, che ha rimesso alla Corte la valutazione circa la compatibilità dell’articolo 580 c.p. con gli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, nonché con gli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Il GIP del Tribunale di Milano era chiamato a decidere su due richieste di archiviazione del procedimento penale per il reato di aiuto al suicidio ci cui all’art. 580 c.p.
Nel caso di specie, due soggetti, affetti da gravi malattie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche insopportabili, avevano espresso in modo libero e consapevole la volontà di porre fine alle proprie vite. Tuttavia, questi non erano tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma si trovavano in una condizione altamente invalidante e dipendente da terzi per ogni attività quotidiana.
Sicché, data la loro condizione di malati irreversibili, si rivolgevano agli indagati che gli prestavano aiuto nel percorso verso il suicidio medicalmente assistito all’estero, in Svizzera.
Il giudice a quo, anche sulla base del precedente n. 242/2019 della Corte Costituzionale, riteneva discriminatorio considerare non punibile la condotta di agevolazione al suicidio nel caso in cui il malato fosse tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e non anche nelle ipotesi in cui tale trattamento sanitario non si rivelasse necessario.
Nella sentenza n. 242 del 2019, infatti, la Corte Costituzionale aveva individuato quattro requisiti, al ricorrere dei quali la condotta dell’aiuto al suicidio non può essere punita, che possono essere così riassunti: (a) si deve trattare di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, (b) la volontà del soggetto di porre fine alla propria vita deve essere espressa in forma libera, consapevole e reiterata nel tempo, (c) il malato che decide di ricorrere al suicidio assistito deve essere dipendente da trattamenti di sostegno vitale e (d) lo stato irreversibile della patologia nonché la dipendenza da trattamenti vitali debbono essere oggetto di accertamento medico.
In definitiva, secondo il giudice a quo, risulterebbe evidente la presenza, nel caso di specie, di tre dei requisiti indicati dalla sentenza n. 242 del 2019, mentre difetterebbe chiaramente il quarto, ossia quello di essere i malati tenuti in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.
LA QUESTIONE
La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice penale, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il giudice a quo riproponeva alla Corte i dubbi – già dichiarati non fondati dalla sentenza n. 135 del 2024 – relativi alla compatibilità costituzionale del requisito della dipendenza del paziente da un trattamento di sostegno vitale, indicato dalla sentenza n. 242 del 2019 come una delle condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto al suicidio non può essere ritenuta punibile.
In particolare, a parere del giudice rimettente, il requisito in parola – quello, cioè, della dipendenza del paziente da un trattamento di sostegno vitale – non sarebbe integrato nella situazione in cui il paziente rifiuti l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, allorché lo stesso paziente ritenga tale trattamento «futile o inutile in quanto espressivo di accanimento terapeutico».
Tale limitazione contrasterebbe con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., irragionevolmente escludendo i pazienti che, essendo affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ed essendo ancora capaci di assumere decisioni libere e consapevoli, abbiano deciso di non sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale.
Inoltre, il requisito in parola violerebbe il diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, riconosciuto dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendo al paziente un’unica modalità di congedo dalla vita: quella di iniziare un trattamento sanitario di sostegno vitale al solo scopo di poterlo poi interrompere.
Infine, esso comprimerebbe senza adeguata giustificazione il diritto, riconosciuto dall’art. 8 CEDU, all’autodeterminazione del paziente, realizzando al contempo – in contrasto con l’art. 14 CEDU – una discriminazione tra pazienti, basata su una condizione personale del tutto accidentale, dipendente dalla tipologia della malattia di cui il singolo paziente soffre.
LA SOLUZIONE
In primo luogo, la Consulta ha circoscritto l’oggetto del suo esame a quello sollevato dall’ordinanza di rimessione, chiarendo come la stessa, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa della parte (secondo cui la ratio che sorreggeva la sentenza n. 242 del 2019 avrebbe dovuto indurre la Consulta a riconoscere una nuova e diversa ipotesi di non punibilità dell’aiuto al suicidio, caratterizzata dalla presenza di una prognosi infausta a breve termine), abbia istato per la necessità di eliminare tout court il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale.
Ciò in quanto tale requisito non consentirebbe – irragionevolmente, a giudizio del rimettente – l’accesso al suicidio assistito di pazienti che abbiano rifiutato un trattamento di sostegno vitale, ritenendolo inutile o sproporzionato.
Dunque, ha ribadito quanto già affermato al punto 7.2. del Considerato in diritto della pronuncia n. 135 del 2024 in risposta all’allora rimettente, il quale già lamentava che il requisito in parola condizionasse in modo perverso l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del paziente, inducendolo ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito.
Sicché ha affermato che il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale la stessa Corte già riteneva non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – oltre al diritto di interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi.
Ha chiarito che dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi.
Non vi è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi, quella del paziente già sottoposto a trattamenti sanitari vitali e quella del paziente che li rifiuti ab origine.
Conseguentemente, ha ritenuto di confermare pienamente quanto già affermato nella sentenza n. 135 del 2024, specificando tuttavia che, nella misura in cui sussista una indicazione medica di necessità dell’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, il paziente può rifiutarlo e accedere al suicidio assistito, ovviamente laddove sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza n. 242 del 2019.
Ha rimesso, dunque, al sindacato del giudice a quo la valutazione in ordine al caso concreto, il quale è tenuto a verificare la sussistenza della situazione descritta rispetto ai due pazienti il cui suicidio sarebbe stato agevolato dall’indagato.
Quanto al contrasto dell’art. 580 cp rispetto all’art. 3 Cost. la Consulta ha chiarito come non sussiste alcuna irragionevolezza nella disparità di trattamento.
Infatti, laddove il paziente decida di rifiutare trattamenti (terapeutici o palliativi) che non possono essere considerati necessari ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, in quanto l’omissione o interruzione degli stessi non determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, la diversità di disciplina rispetto ai pazienti che hanno accesso al suicidio assistito dovrà essere considerata ragionevole.
Ciò in quanto, in assenza di un trattamento di sostegno vitale in atto o di un’indicazione medica in tal senso, il paziente non si trova ancora nella condizione di poter optare per la propria morte sulla base della legge n. 219 del 2017, rifiutando la prosecuzione o l’attivazione del trattamento di sostegno vitale.
Pertanto, la sua situazione non è assimilabile a quella di un paziente la cui vita dipenda, ormai, dal trattamento in questione; il che rende costituzionalmente non censurabile, al metro dell’art. 3 Cost., la diversa disciplina prevista per le due ipotesi.
Quanto all’asserita lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., che sussisterebbe – nella prospettazione del giudice a quo – in quanto la disciplina oggi vigente costringerebbe il paziente a sottoporsi al trattamento di sostegno vitale al solo scopo di poterlo poi legittimamente rifiutare e accedere, così, al suicidio assistito, la Corte ha ribadito che non è necessario – ai fini dell’accesso al suicidio assistito – che il paziente inizi il trattamento di sostegno vitale giudicato necessario dal medico, per poi chiedere di interromperlo.
In assenza di una tale indicazione medica, la Corte nelle sue precedenti citate pronunce aveva già riconosciuto al legislatore un margine di discrezionalità nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona.
Sicché, tale margine di discrezionalità legislativa rende costituzionalmente non obbligata la scelta di consentire l’accesso al suicidio assistito anche a pazienti capaci di assumere decisioni libere e responsabili, affetti da patologie irreversibili che cagionino loro sofferenze intollerabili, ma le cui funzioni vitali non dipendano da trattamenti di sostegno vitale.
Infine, quanto alle censure concernenti la lamentata violazione, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., degli artt. 8 e 14 CEDU, esse, per un verso, devono essere dichiarate non fondate nella misura in cui assumono a presupposto l’impossibilità di equiparare l’effettiva sottoposizione a un trattamento medico di sostegno vitale al rifiuto dello stesso, pur in presenza di una valutazione medica relativa alla sua necessità nel caso concreto.
Per altro verso, nella misura in cui le censure in parola mirino a estendere la non punibilità dell’aiuto al suicidio oltre tale ultima ipotesi, esse devono essere giudicate non fondate sulla base della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 2024.
In tale pronuncia la Corte EDU aveva riconosciuto agli Stati un considerevole margine di apprezzamento nel bilanciare il diritto alla vita privata – necessariamente coinvolto dalla decisione su come e quando morire – e le ragioni di tutela della vita umana, anche in ragione della persistente assenza di unanimità di vedute in materia in seno al Consiglio d’Europa.
Né, infine, può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU poiché, per le medesime ragioni già illustrate a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost, non può ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale.
I requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio, nella perdurante assenza di una legislazione che disciplini la materia, sono funzionali a creare una “cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito «subiscano interferenze di ogni genere».
La tutela della libertà di autodeterminazione giustifica, affinché sia esercitata responsabilmente, il bilanciamento con il dovere dello Stato di tutela della vita, la quale si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona.
Si tratta, dunque, di una prospettiva radicalmente diversa da quella che animava la ratio originaria della punizione dell’aiuto al suicidio prevista dall’art. 580 c.p., rivolta a tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile.
Dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. non discende, quindi, il dovere di vivere cui si rifaceva l’originaria ratio dell’art. 580 cod. pen., bensì, rovesciando la prospettiva, il preciso dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo.
In definitiva, se l’autodeterminazione della persona evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, tale nozione deve essere sottoposta a un bilanciamento a fronte del dovere di tutela della vita umana.
Pertanto, in assenza di un intervento legislativo, la giurisprudenza consolidata della Consulta ha sviluppato su un duplice livello le condizioni per accedere al suicidio assistito.
Il primo livello attiene alla necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, perché in situazioni di fragilità e sofferenza la scelta di porre fine alla propria vita potrebbe essere indotta o sollecitata da terze persone.
Per esempio, non marginale è il rischio che la richiesta di accesso al suicidio assistito costituisca una scelta non sufficientemente meditata, essendo necessario l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente.
Sono quindi le esigenze di tutela delle persone deboli e vulnerabili che danno rilievo alle precise condizioni procedurali costantemente ribadite dalla Consulta (sentenze n. 135 del 2024 e n. 242 del 2019, ordinanza n. 207 del 2018).
Il secondo livello è quello di contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso.
I rischi in questione riguardano anche la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società decidere, così, di farsi anzitempo da parte.
In un contesto storico caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto “diritto di morire” potrebbe essere percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili”.
Tale scivolamento colliderebbe frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana.
Diventa, quindi, cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte.
La Corte, pertanto, ha rinnovato con decisione, lo «stringente appello» al legislatore affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito.
Ha, infine, ribadito con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018, nella sentenza n. 242 del 2019 e da ultimo nella sentenza n. 135 del 2024, che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente per assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, intervenendo con una normativa che regoli in modo dettagliato il suicidio assistito, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate dalla pronuncia in rassegna.
A cura di Ilaria Iacobone