Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Diffamazione: i confini della responsabilità penale

Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2025, n. 9126

LA MASSIMA
La condotta diffamatoria si sostanzia, nella sua oggettiva materialità, nella propalazione di notizie lesive della reputazione di un individuo, intesa come l’insieme delle qualità morali, intellettuali e fisiche da cui dipende il valore della persona nel contesto sociale in cui vive; un dato, quindi, che non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice personale amor proprio, ma con il senso di dignità di cui ciascuno gode all’interno di un gruppo sociale, in un determinato contesto storico di riferimento.

IL CASO
Con sentenza del 6.6.2024, la Corte di Appello, confermando la condanna pronunciata in primo grado, ha ritenuto l’imputato responsabile del reato di diffamazione, di cui all’art. 595, commi 1 e 3, cod. pen., per aver diffuso a mezzo mail una denuncia-querela presentata presso la Procura della Repubblica dal contenuto offensivo, contenente la richiesta che venissero perseguiti due avvocati, i quali avevano omesso di comunicargli la sentenza, nonché i magistrati della Corte di Appello che avevano confermato la sentenza emessa nei suoi confronti, così ledendo la reputazione di un avvocato, nominato suo difensore d’ufficio in altro procedimento penale.
Avverso tale sentenza l’imputato – con un unico motivo – proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione di legge degli articoli 49 e 595 cod. pen. nella parte in cui la Corte di Appello si sarebbe limitata a negare l’operatività della scriminante del diritto di critica senza, tuttavia, valutare preliminarmente la valenza offensiva delle frasi richiamate nel capo d’imputazione, così confondendo il piano della portata diffamatoria con quello, eventuale e successivo, dell’operatività della scriminante.
In particolare, secondo il ricorrente, non si sarebbe tenuto conto del fatto che: a) le doglianze erano state rivolte anche ad altri soggetti (i giudici della Corte di Appello); b) la mail era stata inviata a soggetti che, sulla base delle loro specifiche competenze tecniche, mai avrebbero ritenuto credibili le accuse del ricorrente; c) il contenuto della mail era talmente delirante da essere, di per sé, inidoneo a ledere la reputazione delle persone ivi menzionate.

LA QUESTIONE
Nella sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla configurabilità del delitto di diffamazione e sull’oggettiva idoneità del tenore delle affermazioni a ledere la reputazione di un individuo.

LA SOLUZIONE
Con la sentenza in esame la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, dal momento che le censure sollevate dal ricorrente, del tutto infondate, non erano state previamente dedotte fra i motivi di appello, con cui l’imputato si era limitato a dedurre un vizio di competenza e la sua incapacità di intendere e di volere al momento del compimento del fatto.
Invero, la Corte di Cassazione ha precisato che la condotta diffamatoria si sostanzia, sotto il profilo materiale, nel divulgare notizie lesive della reputazione di un individuo, intesa come l’insieme delle qualità morali, intellettuali e fisiche da cui dipende il valore della persona nel contesto sociale in cui vive, trattandosi di un dato che non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice “amor proprio”, bensì con il senso di dignità di cui ciascuno gode all’interno di un gruppo sociale e in un determinato contesto storico di riferimento.
Tanto premesso, nel caso di specie, il tenore offensivo della mail è stato rinvenuto nelle reiterate affermazioni relative ad una eccessiva negligenza professionale del difensore in relazione a specifici processi in cui l’imputato era stato difeso dalla persona offesa. Ed infatti, secondo la Suprema Corte, quelle diffuse dall’imputato non erano delle affermazioni meramente sconvenienti o lesive della sensibilità della persona offesa, quanto piuttosto delle asserzioni oggettivamente idonee, secondo il comune senso di decoro, ad incidere sulla considerazione che quella persona aveva acquisito all’interno del gruppo sociale ove essa era inserita, incrinandone la reputazione professionale.
Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte ha ritenuto infondate le censure sollevate dal ricorrente, condannandolo al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro da versare in favore della Cassa delle ammende.