Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Desistenza volontaria nei reati di danno a forma libera

Cass. pen., Sez. I, 3 aprile 2025, sentenza n. 13104
LA MASSIMA
“Nei reati di danno a forma libera, la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è pertanto configurabile una volta che siano stati posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento. Sotto tale profilo la desistenza, quindi, può assumere rilievo solo qualora intervenga in una fase nella quale l’attività esecutiva non è ancora esaurita, altrimenti può configurarsi solo – in astratto – l’ipotesi del recesso attivo, mediante impedimento dell’evento. Affinché la desistenza assuma rilievo e che il tentativo non sia punibile, d’altro canto, è necessario che questa sia volontaria, cioè che l’interruzione della condotta sia la conseguenza di un’autonoma e libera determinazione del soggetto agente, che decide di arrestare l’azione che ha iniziato a porre in essere senza che sia intervenuto o sopravvenuto alcun fattore esterno che ne impedisca o ne renda vana la prosecuzione.”
IL CASO
La vicenda in esame trae origine da un ricorso per Cassazione, presentato dall’imputato, avverso una sentenza della Corte d’appello territoriale, che aveva confermato la colpevolezza dell’imputato, in ordine al delitto di cui agli artt. 56 e 575, 577, commi primo e terzo, c.p., commesso in danno della propria moglie.
La vicenda oggetto del ricorso riguardava la condotta dell’imputato, il quale, alle ore 5,30 del mattino, aveva tentato di strangolare la propria moglie con un cavo elettrico predisposto a cappio. Quest’ultima aveva opposto resistenza, anche gridando, finché non è arrivata la figlia di dieci anni. L’imputato aveva quindi interrotto l’azione e aveva lavato il pavimento, per poi allontanarsi, riferendo che sarebbe andato a suicidarsi (lo stesso, invece, era andato a costituirsi).
Nel corso del giudizio di primo grado, definito nelle forme del rito abbreviato, era stata sentita la persona offesa e, poiché le consulenze delle parti erano di opposto tenore, era stata altresì disposta una perizia circa l’idoneità della condotta (con particolare riferimento all’entità della forza usata e potenzialità offensiva del mezzo) a commettere il reato; la difesa, inoltre, sin dal primo grado, aveva chiesto l’applicazione dell’art. 56, comma terzo, c.p., rilevando che l’imputato aveva desistito, ma il Giudice d’appello aveva ritenuto infondata l’impugnazione sul punto, confermando quindi la sentenza del giudice di merito.
Avverso la predetta sentenza, pertanto, l’imputato, tramite il proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo, con un unico motivo, violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’art. 56, comma terzo, c.p., “non avendo l’imputato posto in essere atti diretti in modo non equivoco a cagionare la morte della moglie avendo desistito volontariamente dall’azione o impedito l’evento per recesso attivo”. La difesa intendeva evidenziare che la condotta posta in essere dall’imputato sarebbe qualificabile come tentativo incompiuto, in quanto la vita della vittima non sarebbe mai stata in pericolo e, quindi, considerato che lo stesso aveva interrotto volontariamente la condotta, il caso di specie sarebbe una tipica ipotesi di desistenza.
LA QUESTIONE
La questione di diritto intendeva evidenziare le ipotesi in cui debba valutarsi la configurabilità della fattispecie ex art. 56, comma 3, c.p., nei reati di danno a forma libera.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione dichiarava infondato l’unico motivo di doglianza.
Nel delitto tentato -fattispecie caratterizzata dalla punibilità di atti che, per definizione, non hanno raggiunto lo scopo perseguito dall’agente e tipizzato dal legislatore nella norma incriminatrice di parte speciale- si pone il duplice problema di individuare sia l’idoneità e l’univocità in fatto degli atti (da valutarsi ex ante e in concreto, secondo la prospettiva dell’agente), sia la reale intenzione perseguita dall’autore del fatto.
Premessa dunque la necessaria sussistenza dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo, ai fini della configurabilità dell’art. 56 c.p., in quanto fattispecie autonoma rispetto al reato consumato, oltre alle conseguenti specificazioni del caso (la Corte di Cassazione, invero, rammenta che l’elemento soggettivo, con l’eccezione del dolo eventuale pacificamente ritenuto incompatibile con il tentativo, è identico quello previsto per il reato che il soggetto agente si propone di compiere, mentre l’elemento oggettivo ruota intorno ai concetti dell’idoneità degli atti, dell’univocità degli stessi e del mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento), la Suprema Corte evidenzia che la linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile e quella punibile si snoda proprio attraverso l’esatta individuazione dei su menzionati principi.
Sebbene l’art. 56 c.p. sia l’unica norma che disciplina espressamente il tentativo, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall’art. 115 c.p., a norma del quale “qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell’accordo”.
Tale norma evidenzia, in modo plastico, infatti, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l’applicazione della misura di sicurezza), ponendosi all’estremo opposto del delitto consumato.
È proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice ideazione o accordo (non punibile) ed il delitto consumato, che si colloca la problematica del delitto tentato, consistente quindi nello stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera ideazione, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev’essere ugualmente punibile.
Il fondamento della punibilità del tentativo, d’altro canto, deve essere ravvisato nella esposizione a pericolo, o nella mancata neutralizzazione di un pericolo, per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e, proprio alla luce di detto inquadramento, devono essere valutati gli elementi essenziali della direzione non equivoca degli atti e della loro idoneità, nonché fondamenti strutturali del tentativo, necessari anche al fine di accertare l’intenzione perseguita dall’autore e, quindi, la sussistenza dell’elemento psicologico.
La ritenuta idoneità degli atti, in sé e per sé considerata, peraltro, non è da sola sufficiente ai fini della rilevanza penale della condotta, in quanto un atto, ontologicamente, può apparire ovvero essere potenzialmente idoneo a conseguire una pluralità di risultati, per cui solo la sua univoca direzione a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente si pone in linea con il principio di offensività del fatto.
Il criterio cui fare riferimento, inoltre, non è costituito dalla probabilità, più o meno concreta, che l’evento si verifichi, ma dalla possibilità che ciò avvenga, in quanto le eventuali difficoltà concrete che il soggetto agente dovesse riscontrare non rilevano per la sussistenza o meno del tentativo, ma, anzi, ne costituiscono l’essenza, nel senso che ogni evento ha una maggiore o minore probabilità di verificarsi e che, proprio laddove non si dovesse verificare, si sarebbe in presenza di un delitto tentato.
Al fine di escludere il tentativo per inidoneità degli atti, pertanto, si deve fare riferimento alla possibilità che l’evento accada, così che il discrimine è costituito dalla previsione di cui all’art. 49 c.p., per il reato c.d. impossibile.
Solo qualora l’evento non sia accaduto e questo non aveva alcuna possibilità di accadere, infatti, può ritenersi che il tentativo non sussista, a nulla rilevando le incapacità dell’agente o le mere difficoltà oggettive.
Sotto il profilo dell’univocità degli atti, è utile evidenziare che essi sono “diretti in modo non equivoco a commettere un delitto” quando, in sé considerati, e quindi nella loro struttura ontologica, nonché per il contesto nel quale si inseriscono, sono tali da rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, il fine perseguito dall’agente.
Gli stessi, d’altro canto, ai fini della rilevanza penale e della punibilità del tentativo, non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori e atti esecutivi, discrimine da ritenersi generico e superato, poiché quello che rileva è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso, nonché la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta.
Ciò in quanto per la configurabilità del tentativo assumono rilievo non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quelli che, pur classificabili come preparatori, siano in qualche modo tipici, e cioè corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata e, di conseguenza, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi così affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso (salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo).
Il requisito dell’univocità, infatti, prescindendo da ogni classificazione degli atti, deve essere accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente, quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di identificare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.
I requisiti indicati, l’idoneità degli atti e la direzione non equivoca di questi a determinare l’evento costituiscono quindi i parametri cui fare riferimento, al fine di accertare se il tentativo è “compiuto” e pertanto punibile, ovvero se questo, sia rimasto incompiuto e non sia pertanto punibile.
Tale verifica assume uno specifico rilievo allorché nel caso concreto si debba valutare la configurabilità di una delle due specifiche situazioni regolate dall’art. 56 c.p. che, nei commi terzo e quarto, prevede la desistenza volontaria e il recesso attivo.
Secondo il prevalente orientamento assunto dal Collegio, infatti, l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 56, comma 3, c.p. deve essere esclusa nelle ipotesi di tentativo compiuto e, quindi, una volta posti in essere gli atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, ove si sia adoperato per impedire l’evento di reato, ai sensi dell’art. 56, comma 4, c.p.
Ciò in quanto, nei reati di danno a forma libera, la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è pertanto configurabile una volta che siano stati posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento. Sotto tale profilo la desistenza, quindi, può assumere rilievo solo qualora intervenga in una fase nella quale l’attività esecutiva non è ancora esaurita, altrimenti può configurarsi solo – in astratto – l’ipotesi del recesso attivo, mediante impedimento dell’evento.
Affinché la desistenza assuma rilievo e che il tentativo non sia punibile, d’altro canto, è necessario che questa sia volontaria, cioè che l’interruzione della condotta sia la conseguenza di un’autonoma e libera determinazione del soggetto agente, che decide di arrestare l’azione che ha iniziato a porre in essere, senza che sia intervenuto o sopravvenuto alcun fattore esterno che ne impedisca o ne renda vana la prosecuzione.
La ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata dunque, con il riferimento delle modalità con le quali si è svolto il fatto, per cui la realizzazione dell’evento è stata impedita, dapprima, dalla reazione della vittima e, successivamente, dall’arrivo della figlia minore che, gridando, si è avventata al fine di fermare il padre, ha fornito una corretta risposta alle analoghe critiche già proposte nell’atto di appello e la conclusione sul punto non è pertanto da ritenersi sindacabile.
A cura di Maria Stella Liguori