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Danneggiamento aggravato e pericolo di incendio: la diversità di pena è legittima

Corte cost., 23 dicembre 2024, sentenza n. 212

LA MASSIMA
“È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, c.p. in riferimento all’art. 3 Cost. e sollevata in relazione al trattamento sanzionatorio meno grave previsto dall’art. 424 c.p., giacché si tratta di delitti, il reato di danneggiamento aggravato e il reato di danneggiamento seguito da incendio, con profili di evidente eterogeneità sia sul piano della struttura che su quello dei beni giuridici oggetto di tutela.”.

IL CASO
L’incidente di costituzionalità in questione trae origine dal giudizio principale che vede imputato un detenuto a titolo di custodia cautelare presso una Casa circondariale, per avere, dalla propria cella, appiccato il fuoco, di dimensioni modeste ed estinto in pochi secondi, ad alcuni indumenti propri, gettandoli nel corridoio della sezione attraverso le sbarre, e a un lenzuolo di proprietà dell’amministrazione penitenziaria.
Il Tribunale ordinario solleva con ordinanza, questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, c.p. nella parte in cui, richiamando il primo comma del medesimo articolo, prevede la pena della «reclusione da sei mesi a tre anni» anziché quella della «reclusione da sei mesi a due anni», come stabilito per il reato di danneggiamento seguito da pericolo di incendio di cui all’art. 424, primo comma, c.p. In particolare, il Tribunale precisa la non manifesta infondatezza della questione dato il contrasto tra la disposizione censurata con il principio di eguaglianza giacché il danneggiamento delle cose prevede una pena edittale più severa nel massimo di quella stabilita per il delitto di danneggiamento seguito da pericolo di incendio, reato, quest’ultimo, comprensivo, oltre all’offesa al patrimonio, anche di un pericolo per la pubblica incolumità.; la questione, poi, sarebbe del pari rilevante poiché, nell’individuare il trattamento sanzionatorio sulla base del disvalore oggettivo e soggettivo della condotta, il Tribunale medesimo sarebbe chiamato a determinare la pena da applicare per il fatto oggetto del giudizio a quo, qualificato come delitto di danneggiamento ai sensi della norma censurata, in una misura ricompresa tra il minimo edittale e il valore medio fra minimo e massimo.

LA QUESTIONE
La Consulta è chiamata a decidere la legittimità del massimo edittale del trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di danneggiamento aggravato, valutando l’assetto dei rapporti complessivi tra quest’ultimo reato e l’art. 424, comma 1, c.p.

LA SOLUZIONE
Premesso che in origine l’art. 635, primo comma, c.p. puniva il fatto di distruggere, deteriorare o rendere, in tutto o in parte, inservibili, cose mobili o immobili altrui con la pena alternativa della reclusione fino a un anno o della multa fino a tremila lire, mentre il secondo comma, in considerazione del maggior disvalore dei fatti di danneggiamento, prevedeva alcune ipotesi aggravate sanzionate con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni, la Corte costituzionale pone l’accento sulle plurime modifiche normative che hanno interessato il reato di danneggiamento, individuando la più significativa nella novella operata dall’art. 2, comma 1, lett. l), d.lgs. 7/2016.
In particolare, la Consulta specifica che, con tale intervento normativo, il legislatore ha escluso la rilevanza penale del danneggiamento semplice, attribuendo a tale fatto un rilievo meramente civilistico e, a detta
depenalizzazione, si è accompagnata la previsione come reato delle sole forme di danneggiamento che in precedenza erano configurate come ipotesi aggravate, le quali sono state trasformate in autonome figure di reato, mantenendo inalterato il trattamento sanzionatorio.
Del più, prosegue la Corte, oltre a ridurre l’area di rilevanza penale dei fatti di danneggiamento, la riforma del 2016 ha ridisegnato la dimensione offensiva del reato in parola che non è più da considerarsi come figura posta genericamente ed esclusivamente a tutela del patrimonio mobiliare e immobiliare, bensì come ipotesi che ne tutela l’integrità laddove l’aggressione si accompagni a specifiche modalità (es. violente o minacciose,), condizioni di contesto (es., in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico,) o a una particolare qualità del bene oggetto del reato.
Quanto all’art. 424, comma 1, c.p., individuato dal giudice a quo quale tertium comparationis, si evidenzia che, negli anni, tale norma ha subito solo una modifica meramente formale con l’intervento normativo di cui all’art. 11, legge n. 353/2000 (Legge-quadro in materia di incendi boschivi), con la finalità di coordinare l’ipotesi criminosa del danneggiamento cui segue il pericolo di incendio con la nuova figura delittuosa di incendio boschivo ex art. 423-bis c.p. e con la conseguenza che, ad oggi, l’art. 424, comma 1, c.p. punisce chi, fuori delle ipotesi previste dal citato art. 423-bis, «al solo scopo di danneggiare la cosa altrui, appicca il fuoco a una cosa propria o altrui […] se dal fatto sorge il pericolo di un incendio». Sicché, coerentemente con la collocazione tra i delitti contro l’incolumità pubblica, l’ipotesi delittuosa dell’art. 424 c.p. dà rilievo a condotte di danneggiamento connotate da una proiezione lesiva che si caratterizza nel requisito specializzante del «pericolo di un incendio» e, pertanto, si tratta di una figura che anticipa la soglia della punibilità al “pericolo di un pericolo” per l’incolumità di una pluralità indeterminata di soggetti.
Il delitto di danneggiamento e l’assetto dei rapporti complessivi con l’art. 424, comma 1, c.p., all’indomani della riforma di cui al D.L.vo n. 7/2016, quindi, risultano profondamente mutati: in precedenza, il danneggiamento seguito da pericolo di incendio realizzato appiccando il fuoco alla cosa altrui integrava certamente anche un’ipotesi di danneggiamento penalmente rilevante; oggi, invece, affinché il reato di danneggiamento possa dirsi integrato, devono riscontrarsi quegli specifici elementi che segnano il confine della rilevanza penale del fatto ai sensi dell’art. 635 c.p.
Quanto alla fattispecie oggetto del giudizio principale, la Consulta precisa che la natura lato sensu pubblicistica del bene danneggiato (il lenzuolo) e la sua destinazione funzionale sono elementi non richiesti per la configurabilità del reato di danneggiamento seguito da pericolo di un incendio.
Ciò posto, nel merito, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, c.p. sollevata dal Tribunale in quanto, da un raffronto della disposizione censurata con la norma indicata quale tertium comparationis dell’art. 424 c.p., emergono profili di evidente eterogeneità: quanto alla struttura, l’uno è un reato di danno (che presuppone che la condotta abbia prodotto un danno effettivo all’integrità o alla funzionalità della cosa mobile o immobile altrui), mentre l’altro è un reato di pericolo (che correla la punibilità della condotta, finalizzata a danneggiare la cosa propria o altrui attraverso il fuoco, all’insorgere di un pericolo di incendio); in relazione al bene oggetto della condotta, nell’ipotesi ex art. 635 c.p. è richiesto che della cosa distrutta, deteriorata o resa inservibile, sia titolare un terzo, mentre l’art. 424 c.p. contempla espressamente anche l’ipotesi in cui il fuoco sia stato appiccato a una cosa di proprietà dello stesso soggetto agente, derivandone che, nelle ipotesi sanzionate da quest’ultimo può anche mancare del tutto un danneggiamento, laddove sia dato alle fiamme un bene proprio dell’agente; a livello soggettivo, poi, si evidenzia che, mentre l’art. 424 c.p. è una norma connotata dal dolo specifico, il reato di cui all’art. 635 c.p. è integrato da quello generico. Infine, ancor più significativa è la distanza che connota le due ipotesi criminose dal punto di vista del bene giuridico rispettivamente tutelato: come suggerisce la stessa collocazione topografica delle due norme, infatti, l’art. 424 c.p. è disposizione che tutela l’incolumità pubblica, mentre l’art. 635 c.p. si rivolge alla salvaguardia del patrimonio, in presenza di determinate condizioni o caratteristiche del fatto suscettibili di riflettersi sull’offesa tipica.