Corte Costituzionale, Diritto Penale, Sentenze

Corte Costituzionale: infondata la questione di legittimità sull’art. 5, comma 8-bis, del T.U. Immigrazione

Corte Cost., 7 marzo 2025, sentenza n. 25

IL DISPOSITIVO
“Non è fondata la questione di legittimità dell’art. 5, comma 8-bis, del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (T.U. Immigrazione), sollevata in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio sia per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sia per quelli di contraffazione o alterazione di documenti descritti nella stessa norma, e non invece trattamenti sanzionatori differenziati, non prevedendo in particolare che la pena edittale per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati sia determinata riducendo di un terzo la pena prevista per le condotte di contraffazione o alterazione dei documenti medesimi, analogamente a quanto disposto dall’art. 489 c.p.”.

IL CASO
Il caso trae origine dall’instaurato procedimento nei confronti di un uomo, imputato del delitto previsto e punito dall’art. 5, comma 8-bis, del D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U. Immigrazione), per avere utilizzato, inviandolo all’Ufficio immigrazione della Questura competente, un certificato di conoscenza della lingua italiana apparentemente a lui rilasciato, poi risultato contraffatto in quanto intestato ad altro soggetto. In particolare, l’imputato aveva posto in essere tale condotta al fine di ottenere il rilascio del permesso di soggiorno per cittadini di altro Stato membro dell’Unione europea soggiornanti di lungo periodo.
Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale adito, su eccezione della difesa dell’imputato, sollevava questione di legittimità della disposizione sopra richiamata, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio sia per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sia per quelli di contraffazione o alterazione di documenti. Il rimettente, invero, sottolinea come l’assimilazione sul piano sanzionatorio del disvalore di dette condotte sia ingiustificata, in ragione della minore gravità del reato di mera utilizzazione del documento falso.

LA QUESTIONE
Un primo profilo di censura concerne, quindi, l’intrinseca irragionevolezza dell’equiparazione sanzionatoria tra le condotte di contraffazione o alterazione di documenti e quelle consistenti nel mero uso di siffatta documentazione, condotte tutte punite da uno a sei anni di reclusione. Ad avviso del giudice a quo, le due tipologie di azioni presupporrebbero «modalità esecutive e coefficiente psicologico […] diversi, a loro volta indicativi di una diversa attitudine del soggetto attivo di porsi in contrasto con l’ordinamento: […] destinazione di risorse materiali e di tempo alla realizzazione dell’illecito da una parte, mera ricezione ed utilizzo dell’atto contraffatto dall’altra».
Da tali considerazioni discenderebbe il contrasto tanto con l’art. 3 Cost., quanto con il principio di proporzionalità della pena desumibile dall’art. 27 Cost. Com’è noto, il primo canone è espressione del principio di eguaglianza e rappresenta un criterio che attiene alla giustificabilità delle scelte del legislatore: è, infatti, ragionevole la decisione non incongrua o sorretta da giustificazione da parte di chi compie la scelta stessa. Il principio di proporzionalità, diversamente, concerne il rapporto tra illecito e sanzione penale. Esso impone la valutazione circa la coerenza delle decisioni compiute dal legislatore in punto di commisurazione dell’entità della pena, valutazione intimamente connessa al disvalore del fatto commesso. Solo l’espiazione di una pena proporzionata verrà avvertita dal reo come giusta e, dunque, potrà avere effetti positivi circa il suo reinserimento sociale.
Un secondo profilo di censura attiene alla disparità di trattamento sanzionatorio tra le condotte descritte dall’art. 5, comma 8-bis, norma di natura speciale e pluri-offensiva, e quelle previste dall’art. 489 c.p., il quale dispone la riduzione di un terzo della pena prevista per i delitti di falsità materiale commessi dai privati in favore di chi, senza essere concorso nella falsità, faccia soltanto uso di un atto falso. La disposizione censurata, pur contemplando una pena più severa rispetto alle comuni ipotesi di falso, non terrebbe – quindi – conto del differente disvalore delle
due tipologie di aggressione ai beni giuridici tutelati (pubblica fede, gestione dei flussi migratori e interesse dello Stato alla regolarità degli ingressi).
L’Avvocatura generale dello Stato osserva come proprio la natura speciale e plurioffensiva del reato oggetto di censura, se raffrontata alla diversa natura mono-offensiva dei comuni delitti di falso, escluderebbe la sproporzione della scelta sanzionatoria. I comuni delitti di falso, quindi, costituirebbero tertia comparationis disomogenei poiché solo parzialmente sovrapponibili alla fattispecie di cui all’art. 5, comma 8-bis in ragione del bene oggetto di tutela. Non sarebbe, quindi, possibile per la Corte Costituzionale decidere secondo il c.d. sindacato a rime obbligate, prospettato dal rimettente. Detta tipologia di sindacato imporrebbe, infatti, l’individuazione di una norma già presente nell’ordinamento giuridico che tuteli il medesimo bene protetto dalla disposizione oggetto di giudizio (c.d. tertium comparationis) al fine di procedere con il vaglio di proporzionalità ex artt. 3 e 27, comma 3 Cost. e art. 49, comma 3 CDFUE.

LA SOLUZIONE
I giudici della Corte costituzionale circoscrivono, dapprima, l’oggetto di censura: questo coincide, invero, con la mancata previsione di una cornice edittale differenziata per le singole fattispecie astratte previste dalla disposizione incriminatrice, e – in particolare – la mancata previsione di una pena ridotta di un terzo per la fattispecie meno grave, che il rimettente individua in quella di mera utilizzazione del documento da altri contraffatto o alterato. Da ciò discenderebbe la violazione del principio di uguaglianza, sotto il duplice profilo dell’irragionevole eguale trattamento di situazioni diverse e dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai tertia comparationis ricavabili dalla disciplina dei delitti di falsità documentale previsti dal Codice penale.
Quanto al primo argomento, la Consulta rileva come l’utilizzazione del documento presuppone nella maggior parte dei casi un previo concorso, quanto meno morale, dell’utilizzatore nella falsificazione del documento stesso, il quale contiene i dati identificativi di quest’ultimo, che soltanto lo stesso è in grado di fornire a chi compie la condotta materiale di falsificazione. Non appare, dunque, irragionevole che il legislatore abbia ritenuto di sottoporre alla medesima cornice edittale tutte le condotte descritte dalla disposizione censurata: non si tratta, infatti, di fattispecie che, già nella loro configurazione astratta, sono connotate da un disvalore vistosamente inferiore rispetto alle altre, con riferimento alle quali trova applicazione il medesimo trattamento sanzionatorio.
I giudici prendono, poi, in considerazione il paventato diverso grado di progressione criminosa delle fattispecie ovvero il fenomeno del susseguirsi, per effetto di risoluzioni successive, di aggressioni di crescente gravità nei confronti di un medesimo bene giuridico tutelato. Secondo la Corte è la condotta di contraffazione o alterazione di un documento che rappresenta l’azione preparatoria rispetto a quella di presentazione del documento alle autorità di polizia al fine di ottenere il permesso di soggiorno e non viceversa. La condotta di mera utilizzazione del documento crea, dunque, un immediato pericolo per il bene giuridico protetto poiché è solo tramite la medesima che si determina la possibilità di rilascio di un titolo di soggiorno in assenza delle condizioni previste dalla legge, con conseguente pregiudizio dell’ordinata gestione dei flussi migratori.
Neppure sussiste, ad avviso della Corte, una violazione del principio di uguaglianza sotto il profilo della disparità di trattamento tra la disposizione censurata e i tertia comparationis individuati dal giudice a quo. La peculiare natura dei documenti cui si riferisce la disposizione oggetto di giudizio rende non utilmente invocabile la fattispecie di cui all’art. 489 c.p. Le ragioni che hanno indotto il legislatore a prevedere una generale riduzione di pena per chi abbia semplicemente usato l’atto falso, senza essere concorso nella sua falsità, non paiono necessariamente sussistenti anche con riferimento agli speciali documenti cui si riferisce la disposizione censurata, rispetto ai quali non è agevole ipotizzare sul piano fattuale una loro utilizzazione in assenza di un previo concorso nella loro falsificazione e rispetto ai quali, come ribadisce ancora una volta la Consulta, è proprio il momento dell’utilizzazione a creare un immediato pericolo per l’interesse che il legislatore intende tutelare.
Alla luce di tali argomentazioni, la Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8-bis, D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U. Immigrazione), sollevate in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.

Segnalazione a cura della Redazione