Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Corruzione propria e violazione del dovere d’imparzialità: quando si configura il delitto ex art. 319 c.p.

Cass. pen., Sez. VI, 16 gennaio 2025, sentenza n. 1909

LA MASSIMA
“L’accettazione di un’indebita remunerazione integra corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio di cui all’art. 319 c.p. se, in concreto, l’esercizio dell’attività del pubblico funzionario sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare”.

IL CASO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello territoriale confermava la condanna dell’imputato, allora assessore comunale, per il delitto di partecipazione a un’associazione a delinquere costituita tra il sindaco e altri componenti della giunta municipale e finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, nonché per due episodi di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.
Ricorreva in Cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, lamentando l’erronea qualificazione giuridica dei singoli episodi corruttivi qualificati dal Giudice di appello come ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio di cui all’art. 319 c.p., anziché come fatti di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 c.p.
In particolare, a parere della difesa, la corruzione c.d. “propria” presuppone un accordo diretto alla commissione dello specifico atto contrario ai doveri d’ufficio cui è finalizzata la condotta criminosa, dovendosi perciò accertare con rigore il contenuto in tal senso del patto.
Tanto non sarebbe avvenuto nel caso di specie, non essendo possibile ritenere quale atto contrario ai doveri d’ufficio il libero esercizio del diritto di voto compiuto dal ricorrente nella sua veste istituzionale, così come contestato dall’accusa.

LA QUESTIONE
La Corte è stata chiamata a individuare l’esatta qualificazione giuridica dei fatti corruttivi oggetto di contestazione. Controversa era, in particolare, la sussumibilità degli stessi, come ritenuto dal Giudice di secondo grado, nella fattispecie della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, prevista dall’art. 319 c.p., o, piuttosto, in quella della corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 c.p.
Sul punto, la Corte di appello non si era espressa con precisione, limitandosi a dare rilievo decisivo al principio per cui la fattispecie di corruzione “propria” non presuppone necessariamente la contrarietà dell’atto dell’agente pubblico alla specifica disciplina normativa di riferimento, quale che ne sia il rango, ben potendo assumere rilevanza anche la violazione del generale dovere d’imparzialità e correttezza dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97 Cost.

LA SOLUZIONE
Ai fini della decisione, la Cassazione ritiene essenziale una corretta qualificazione delle condotte corruttive contestate, che non può prescindere dall’attenta analisi degli elementi costitutivi delle fattispecie di reato previste dagli articoli 318 e 319 c.p.
In particolare, i giudici di legittimità rilevano l’esistenza di due distinti orientamenti sul punto. Secondo l’impostazione tradizionale, seguita dalla Corte di appello, la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio di cui all’art. 319 c.p., non presuppone necessariamente la contrarietà dell’atto dell’agente pubblico alla specifica disciplina normativa di riferimento, quale che ne sia il rango, potendo assumere rilevanza anche la violazione del generale dovere d’imparzialità e correttezza dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97 Cost.
Tale affermazione, tuttavia, a parere della Suprema Corte, sarebbe stata progressivamente raffinata dalla giurisprudenza di legittimità, per cui in caso di attività compiuta dall’agente pubblico in cambio di un’indebita remunerazione, ma nell’àmbito di uno spazio discrezionale riservatogli dalla normativa (quindi non in contrasto con quest’ultima), il discrimine fra le due fattispecie di corruzione, quella per atto contrario ai doveri d’ufficio e quella per esercizio della funzione, deve essere individuato nella direzione della sua azione.
La Cassazione, con la decisione in commento, mostra di aderire a quest’ultima impostazione, sostenendo che l’accettazione di un’indebita remunerazione integra la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio di cui all’art. 319 c.p. se, in concreto, l’esercizio dell’attività del pubblico funzionario sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare.
In altri termini, perché la condotta corruttiva si possa definire come corruzione per atto contrario al proprio ufficio, occorre accertare se l’atto sia stato realizzato in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale o meno e se il pubblico agente, anche muovendosi nei confini di tale potere, abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore. Diversamente, qualora non sia stato violato alcun dovere specifico e l’atto compiuto realizzi ugualmente l’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, si deve ritenere integrato il reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318, c.p.
Nel caso in esame la Corte, non rinvenendo tale disamina nella sentenza impugnata e ritenendo indispensabile una rivalutazione del compendio probatorio alla luce del principio appena enunciato, ha annullato con rinvio la decisione del Giudice di appello, onde consentire al giudice di merito l’esatta qualificazione giuridica dei fatti di reato di cui all’imputazione e l’adozione delle statuizioni conseguenti.