Cassazione, Diritto Penale

Confisca per riciclaggio e autoriciclaggio: i beni confiscabili ex art. 648-quater c.p.

Cass., Sez. II, 18 marzo 2025, n. 10871

LA MASSIMA
“In tema di confisca ex art. 648 quater c.p., è suscettibile di ablazione non solo il profitto del reato, ma anche il prodotto di esso, prevedendo la normativa sovranazionale la necessità di sottrarre alla criminalità i risultati dell’attività illecita, che non si esauriscono nei soli vantaggi derivati, in via diretta o mediata, dai delitti presupposti, ma comprendono anche quanto forma oggetto delle successive fasi di reinvestimento o trasformazione degli anzidetti proventi; con l’ulteriore precisazione che devono intendersi per prodotto del reato di autoriciclaggio non solo i beni oggetto di trasformazione per effetto della condotta illecita, che, in quanto tali, presentano caratteristiche identificative alterate, modificate o manipolate, ma anche i beni e i valori che, pur non avendo subito modificazioni materiali, risultano diversamente attribuiti in termini di titolarità ed ai fini delle regole di circolazione, per effetto di operazioni negoziali”.

IL CASO
La Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso riguardante la decisione dei giudici d’appello che, in parziale riforma della sentenza con cui il GUP aveva condannato gli imputati (il primo, rappresentante legale di una s.r.l., l’altro dipendente della stessa) per reati di riciclaggio, frode fiscale, reimpiego di denaro, indebita compensazione, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, assolvevano uno degli imputati limitatamente ad un capo di imputazione e dichiaravano alcuni reati fiscali estinti, perché prescritti, rideterminandone la pena.
I ricorsi proposti dagli imputati vertono sui medesimi motivi, pertanto sono stati trattati congiuntamente dal Collegio.
Con il primo motivo, l’imputato, legale rappresentante della società, deduce la violazione dell’art. 606, comma I, lett. b) ed e), c.p.p in relazione all’art. 648 quater c.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, evidenziando che la Corte territoriale avesse reso una motivazione carente, ignorando le censure difensive proposte, in particolare quelle che deducevano: l’insussistenza dei presupposti per l’applicabilità del concorso tra frode fiscale e riciclaggio, la rilevanza del dato temporale del pactum sceleris in ordine al reato presupposto e le operazioni finalizzate ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle utilità derivanti (aspetto quest’ultimo rilevante ai fini del concorso nel reato presupposto, che escluderebbe il riciclaggio), l’inesistenza di un arricchimento patrimoniale tale da provare che fosse stata posta in essere una condotta di frode fiscale, l’insussistenza dei reati di indebita compensazione, ignorando che proprio il ricorrente si occupava di trasmettere i dati all’agenzia delle entrate e della predisposizione di documentazione e dichiarazioni, pertanto anziché la fattispecie di riciclaggio, si sarebbe dovuto configurare un’ipotesi di concorso nell’operazione di frode fiscale o un’ipotesi autonoma di cui all’art.8, D.lgs. n.74 del 2000. Infine, la difesa rileva che il legale rappresentate della società in sede di interrogatorio si è limitato a confessare di essere ideatore ed esecutore del meccanismo di frode fiscale.
Con il secondo motivo si contesta la violazione dell’art. 606, comma I, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 578 bis c.p.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sul presupposto che la Corte territoriale, dopo aver dichiarato l’estinzione di alcuni reati fiscali per intervenuta prescrizione, avesse comunque confermato le statuizioni sulla confisca ex art. 12 bis, D.lgs. n.74/2000, dichiarando espressamente che nel giudizio di secondo grado, nessuno motivo di impugnazione fosse stato articolato sul punto.
L’ultimo motivo di ricorso verte sulla violazione dell’art. 606, comma I, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 648 quater c.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. A parere del ricorrente, c’è manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui fa coincidere il profitto dei reati di riciclaggio e reimpiego di denaro con la totalità delle somme oggetto delle operazioni dirette ad ostacolare la provenienza delittuosa; pur volendo accogliere quanto ricostruito, gli importi relativi ai reati fiscali, presupposto del riciclaggio, dovrebbero corrispondere agli importi versati sui conti degli imputati, oggetto di confisca, ma così non è.
Anche l’altro imputato, con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 606, comma I, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 648 bis c.p., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Rileva che la sentenza impugnata prospetta uno schema di frode fiscale nell’ambito del quale entrambi gli imputati sono considerati emittenti di fatture per operazioni inesistenti. A parere della difesa, tali condotte non integrano riciclaggio, ma piuttosto lo schema della frode fiscale, non trattandosi di operazioni volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita delle somme, ma di azioni per rendere lecita l’emissione e conseguente utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Il concorso del dipendente nel reato presupposto, esclude che gli possa essere addebitato anche il reato di riciclaggio, contestato; inoltre, non risulta la provenienza illecita del denaro transitato sui conti correnti intestati ai ricorrenti.
Con il secondo motivo eccepisce la violazione dell’art. 606, comma I, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 648 quater c.p., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; l’illegittimità della confisca poiché ha riguardato l’intero importo movimentato sui conti correnti, omettendo che solo una minima parte delle somme transitate sui conti è profitto del riciclaggio, corrispondente al compenso trattenuto dai ricorrenti. Inoltre, i giudici di merito sono ricorsi alla confisca di valore, che ha natura sanzionatoria, eludendo il nesso pertinenziale tra il bene confiscato ed il reato, di talché può essere disposta limitatamente al vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dal riciclatore e non anche in relazione all’intero ammontare delle somme ripulite, anche nel rispetto del principio di proporzionalità.

LA QUESTIONE
La questione oggetto di analisi verte sul corretto inquadramento della misura di cui all’articolo 648 quater c.p., con particolare riferimento al reato presupposto e sulla disciplina processuale della proponibilità del ricorso per Cassazione.

LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione rigetta entrambi i ricorsi, ritenendo tutti i motivi inammissibili ex art. 616 c.p., e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, nonché, ravvisando profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende.
Riguardo il primo motivo, la Corte dichiara che vengono riproposte le censure già affrontate in appello, pertanto il ricorrente non ha tenuto conto della motivazione del provvedimento reso.
La Corte territoriale si era, infatti, già pronunciata sulla configurabilità del reato di riciclaggio, escludendo la partecipazione a titolo di concorso dei ricorrenti nei reati fiscali presupposto. Uno degli imputati, circa le indebite compensazioni contestate, aveva negato di aver fatto compensazioni a favore dei clienti ed escluso di aver predisposto false fatture; aveva rappresentato, inoltre, che il legale rappresentante della società fosse incaricato a tenere la contabilità per la società e non delegato ad effettuare i versamenti delle ritenute previdenziali e l’insussistenza di elementi da cui desumere un contributo causale del ricorrente nella condotta di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Infine, egli aveva dichiarato l’inesistenza di elementi significativi della presenza di un accordo con gli altri legali rappresentanti delle società, autori dei reati fiscali.
Sulla posizione dell’imputata, dipendente della società, il ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, dimostrando che il provvedimento fosse stato del tutto ignorato, eludendone la funzione costitutiva ed essenziale.
Come affermato da consolidata giurisprudenza della Corte, è inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle a fondamento dell’impugnazione.
Anche il secondo motivo del ricorso è inammissibile. Rileva il Collegio che la Corte territoriale aveva eccepito che la statuizione di primo grado, relativa alla confisca ex art. 12 bis comma I, D.lgs. n. 74/2000, non fosse stata oggetto di specifica impugnazione. Ciononostante, il ricorrente ha lamentato che l’impugnazione fosse stata implicitamente estesa anche alle pene accessorie; i giudici di legittimità evidenziano che il motivo di appello “implicito” risulterebbe in ogni caso generico, non essendo esplicitamente enunciati e argomentati rilievi critici delle ragioni di fatto o di diritto a fondamento della decisione impugnata.
Il Collegio dà seguito ad un orientamento della Cassazione, secondo cui è inammissibile, ex art. 606, co. III, ultima parte, c.p.p., il ricorso per Cassazione che deduca una questione che non ha costituito oggetto dei motivi di appello, tale dovendosi intendere anche la generica prospettazione nei motivi di gravame di una censura solo successivamente illustrata in termini specifici con la proposizione del ricorso in Cassazione. Il difetto di motivazione della sentenza d’appello in ordine a motivi generici, proposti in concorso con altri motivi specifici, non può costituire oggetto del ricorso in Cassazione, poiché i motivi generici sono comunque viziati da inammissibilità originaria, anche se il giudice dell’impugnazione non abbia in concreto pronunciato tale sanzione.
Il terzo motivo del ricorso del legale rappresentante è sovrapponibile al secondo motivo di ricorso della dipendente, poiché attinente alla nozione di profitto sottoponibile a confisca. Nei loro ricorsi, gli imputati reiterano pedissequamente censure già evidenziate in appello, alle quali la Corte territoriale ha fornito risposta esaustiva e congrua, in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità.
Nella confisca ex art. 648 quater c.p. è suscettibile di ablazione non solo il profitto del reato, ma anche il prodotto di esso, prevedendo la normativa sovranazionale la necessità di sottrarre alla criminalità i risultati dell’attività illecita, che non si esauriscono nei soli vantaggi derivati, in via diretta o mediata, dai delitti presupposti, ma comprendono anche quanto forma oggetto delle successive fasi di reinvestimento o trasformazione degli anzidetti proventi; con l’ulteriore precisazione che costituiscono prodotto del reato di autoriciclaggio non solo i beni oggetto di trasformazione per effetto della condotta illecita, che, in quanto tali, presentano caratteristiche identificative alterate, modificate o manipolate, ma anche i beni e i valori che, pur non avendo subito modificazioni materiali, risultano diversamente attribuiti in termini di titolarità ed ai fini delle regole di circolazione, per effetto di operazioni negoziali.
Tale conclusione è in linea con la giurisprudenza comunitaria e con la genesi dell’art. 648 quater c.p., che individua nelle misure ablatorie e di sottrazione dei proventi delle manifestazioni criminali più gravi uno strumento imprescindibile di prevenzione di dette condotte delittuose. L’oggetto della confisca prevista in relazione a riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio dall’art. 648 quater c.p. deve essere interpretato in senso più ampio rispetto alla nostra tradizione giuridica, per assicurare le finalità della direttiva comunitaria.
La questione sollevata con il secondo motivo dalla dipendente della società, sullo scomputo dal totale delle somme da confiscare di quelle provenienti dalla società, non è stata posta ai giudici di appello; come affermato dalla giurisprudenza di legittimità non possano essere dedotti in Cassazione questioni su cui il giudice di appello abbia omesso di pronunziarsi perché non devolute alla sua cognizione.
Le questioni proposte attengono al regime delle impugnazioni, in particolare il principio secondo cui la Corte di legittimità non può essere chiamata, sostanzialmente in prima istanza, se il profilo proposto non sia stato prima sottoposto al giudice del merito. Il tema se proposto soltanto in Cassazione, dà luogo ad una inammissibile interruzione della catena devolutiva.