Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Concorso morale nella resistenza a pubblico ufficiale

Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2025, sentenza n. 12146

MASSIMA
“Integra il concorso morale nel reato di resistenza a pubblico ufficiale, la condotta di colui che, assistendo ad una resistenza attiva posta in essere, con violenza nei confronti di un pubblico ufficiale, da altro soggetto con il quale partecipi ad una comune manifestazione collettiva, rafforzi l’altrui azione offensiva o ne aggravi gli effetti, mettendo in discussione il corretto operato delle forze dell’ordine”.

IL CASO
La vicenda processuale approdata dinanzi alla Corte di Cassazione trae origine dalla decisione con cui il Tribunale del riesame, in accoglimento dell’appello del Pubblico ministero, aveva applicato all’imputata la misura cautelare del divieto di dimora, in relazione alla commissione del reato di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 337, 339, commi 1 e 2, 61, n. 2, c.p.
In particolare, era stato contestato alla ricorrente il reato di resistenza aggravata a pubblico ufficiale, perché, in concorso con altri soggetti, in numero superiore a dieci persone, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nel contesto di una manifestazione anarchica di protesta contro l’applicazione del regime carcerario di cui all’art. 41-bis O.P., aveva partecipato attivamente ad un gruppo che aveva caricato su un carrello da supermercato oggetti da utilizzare negli scontri e nelle devastazione (uno striscione formato da pannelli in plexiglass con maniglie, bastoni in legno, scudi di plastica dura con maniglie), e, nonostante tale gruppo, intercettato dagli operatori in servizio, fosse stato intimato da quest’ultimi di fermarsi, aveva proseguito la marcia per circa 200 metri spingendo con violenza i carrelli contro gli operatori stessi, così impedendo loro di compiere un atto di ufficio e servizio, atteso che il sequestro dei beni presenti nel carrello veniva effettuato soltanto grazie all’intervento di ulteriori agenti di supporto.
Esposto nei suddetti termini il capo di accusa, il Giudice delle indagini preliminari aveva rigettato la richiesta di misura cautelare sulla base della asserita genericità della ricostruzione, dalla quale non era possibile distinguere chi, fra gli autori materiali della condotta, fossero gli eventuali concorrenti morali e i meri conniventi.
Al contrario, il Tribunale del riesame aveva messo in evidenza la rilevanza del compendio probatorio che, a giudizio del Collegio della cautela, non solo permetteva di comprendere in modo preciso la dinamica della condotta di resistenza, ma conteneva la specificazione dei nomi di coloro che, nello spingere il carrello e nell’incitare l’avanzata contro gli Agenti, l’avevano materialmente realizzata e, fra questi, era identificata con certezza la ricorrente, in concorso con altre quindici persone.
Ebbene, avverso tale ordinanza, la difesa dell’imputato interponeva tempestivo ricorso per Cassazione, deducendo i motivi di annullamento di seguito sintetizzati ex art. 173 disp. att. c.p.
In primo luogo, la ricorrente deduceva la violazione di legge con riferimento all’art. 110 c.p., in relazione alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. L’ordinanza impugnata, a detta della difesa, incorreva sia nel vizio di erronea applicazione dell’istituto del concorso di persone nel reato, estendendo l’area di punibilità ben oltre il confine imposto dal principio di tassatività della fattispecie penale, sì da ricomprendere la mera presenza sul posto come elemento integrante la previsione di cui all’art 110 c.p., sia nel vizio di mancanza di motivazione con specifico riguardo alla efficacia causale delle singole condotte rispetto alla realizzazione del fatto.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduceva il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Sosteneva la difesa che, a differenza di quanto asserito dal Collegio della cautela, i filmati consentivano di verificare che non si era trattato dell’incedere di un gruppo compatto, bensì dell’avanzare disordinato di singole persone.
Con il terzo motivo, si deduceva la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari. Invero, la difesa sosteneva che le argomentazioni del Tribunale sul pericolo attuale e sul concreto rischio di recidivanza presentassero delle contraddizioni di natura logica: il Tribunale, da un lato, dopo aver precisato che gli indagati erano tutti militanti di area anarchica, aveva affermato che la militanza non fosse indice di accresciuta pericolosità; dall’altro, aveva affermato che il non aver preso le distanze dall’ideologia costituisse il segno di rischio di recidivanza.
Inoltre, nello stesso motivo, la ricorrente sosteneva che la misura cautelare applicatale fosse sproporzionata, inidonea e difforme rispetto ai presidi cautelari applicati nei confronti dei coindagati.

LA QUESTIONE
La Corte è chiamata a chiarire se la condotta di partecipazione a una manifestazione collettiva possa integrare concorso nel reato di resistenza a pubblico ufficiale anche in assenza di atti direttamente violenti, e se, in presenza di più coindagati, l’applicazione di una misura cautelare afflittiva come il divieto di dimora sia legittima e proporzionata, alla luce del principio di uguaglianza e della necessaria motivazione sulle esigenze cautelari.

LA SOLUZIONE
La Suprema Corte ha accolto il ricorso limitatamente al motivo sulle esigenze cautelari.
Con riferimento al primo e secondo motivo, entrambi riguardanti la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, i giudici di legittimità li hanno ritenuti infondati. Invero, nell’argomentare la loro infondatezza, la Corte ha preliminarmente ribadito alcuni consolidati approdi giurisprudenziali secondo cui la volontà di concorrere nella commissione di un reato non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, atteso che l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso. Più nel dettaglio, la Corte ha ribadito il principio di diritto in forza del quale integra il concorso morale nel reato di resistenza a pubblico ufficiale, la condotta di colui che, assistendo ad una resistenza attiva posta in essere, con violenza nei confronti di un pubblico ufficiale, da altro soggetto con il quale partecipi ad una comune manifestazione collettiva, rafforzi l’altrui azione offensiva o ne aggravi gli effetti, mettendo in discussione il corretto operato delle forze dell’ordine (Cass. IV Sez., 27 aprile 2012, n. 18485). La questione ha riguardato la fattispecie nella quale, in applicazione del principio su indicato, si è ritenuta immune da censure la decisione con cui era stata confermata la responsabilità dell’imputato a titolo di concorso nel reato di cui all’art. 337 c.p., il quale, pur non essendo stato visto nel gesto di effettuare materialmente il lancio di corpi contundenti nei confronti degli agenti, si era associato ad un gruppo di tifosi della locale squadra di calcio, contrastando ripetutamente i pubblici ufficiali, con azione “ad elastico”, e cioè avvicinandosi più volte agli antagonisti, fronteggiandoli in maniera ostile e poi allontanandosene velocemente con atteggiamento di rafforzamento, di fatto, dell’azione posta in essere da taluni di detti “supporters”, concretizzatasi nel lancio di pietre ed altri oggetti contundenti (cfr. Cass. VI Sez., 3 dicembre 2015, n. 1940; Cass. VI Sez., 26 maggio 2009, n. 40504).
Orbene, i Giudici di legittimità hanno riconosciuto al Tribunale della cautela la corretta applicazione dei suddetti principi, sottolineando che, dalle annotazioni di polizia giudiziaria, emergeva che quindici persone partecipanti al corteo, a una certa ora, si fossero allontanate dallo stesso con la comune volontà di recarsi presso un furgone parcheggiato in zona e riempire un carrello di bastoni e barriere in plastica che sarebbero state utilizzate nel corso della manifestazione. In tale contesto, la ricorrente era stata identificata con certezza come colei che, in concorso con le altre quindici persone, aveva spinto il carrello contro le Forze dell’ordine nei termini sopra esposti. A nulla rilevando la circostanza che dalle telecamere di videosorveglianza fosse emerso che quest’ultima pareva allontanarsi di tanto in tanto.
La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, rimarcato, ai fini della sussistenza del concorso, l’unitarietà del “fatto collettivo” realizzato, che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia avuto conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (Cass. Sez. UU, 22 novembre 2000, n. 31; Cass. II Sez., 15 gennaio 2013, n. 18745).
A parere della Corte, il Tribunale si era correttamente conformato anche a tale principio, sottolineando la contestualità temporale e spaziale della condotta di resistenza contestata alla ricorrente e ai coindagati, sicché era sufficiente che ciascun agente avesse consapevolezza, anche unilaterale, del contributo fornito alla condotta altrui, rendendo così il fatto unico e comune a tutti i partecipanti.
Da ultimo, la Corte ha ritenuto fondato il motivo relativo alla proporzionalità della misura cautelare, pur riconoscendo la sussistenza delle esigenze cautelari in ragione della gravità del fatto. A parere del Collegio, il Giudice della cautela, pur avendo compiuto una corretta valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative, alla stregua di un’analisi accurata della fattispecie concreta, delle modalità realizzative della condotta, della personalità della ricorrente, del contesto fattuale e della distanza temporale dai fatti, aveva disposto una misura cautelare sproporzionata. Infatti, la decisione di allontanare l’indagata dal proprio luogo di residenza e abituale dimora appariva sproporzionata e difforme rispetto ai presidi cautelari applicati nei confronti dei coindagati. Quest’ultimi, pur avendo posto in essere la medesima condotta della ricorrente e, dunque, nell’ambito di un “fatto collettivo” da leggere unitariamente, erano stati sottoposti a misure meno afflittive: l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e, in alcuni casi, l’obbligo di dimora. Pertanto, secondo la Corte, il Tribunale del riesame, nell’applicare alla prevenuta il divieto di dimora, non aveva adeguatamente indicato le ragioni che giustificassero l’applicazione di una misura cautelare così afflittiva, anche in considerazione dello stato di incensuratezza della ricorrente.
Muovendo dalle suesposte argomentazioni, la Corte ha annullato l’ordinanza impugnata, rinviando per nuovo giudizio al Tribunale competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, c.p.p.