Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Chiarimenti sull’applicazione della pena detentiva in caso di diffamazione

Cass. pen., Sez V, 21 maggio 2025, sentenza n. 29840

 

LA MASSIMA

«La pena detentiva come risposta sanzionatoria al delitto di diffamazione – a mezzo stampa o non – è consentita soltanto ove ricorrano circostanze eccezionali. Secondo un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata della norma, invero, l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il delitto di diffamazione commesso, anche al di fuori di attività giornalistica, mediante mezzi comunicativi di rapida e duratura amplificazione (nella specie via Internet), deve essere connessa alla grave lesione di diritti fondamentali, come nel caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza».

 

IL CASO

La Corte di Appello di Reggio Calabria confermava la pronuncia con cui il Tribunale aveva condannato l’imputato alla pena sospesa di quattro mesi di reclusione per il reato di diffamazione. Nel caso di specie, l’imputato aveva offeso l’onore e la reputazione della persona offesa accusandola falsamente, mediante un post su Facebook, di trovarsi in una situazione di incompatibilità ai sensi dell’art. 19 ord. giud. in ragione di rapporti di coniugio e di parentela con persone nel medesimo distretto giudiziario.

L’imputato proponeva ricorso per Cassazione deducendo due motivi. Con il primo, si eccepiva violazione di legge e nullità della sentenza in relazione all’art. 180, comma 1, lett. c), c.p.p. In particolare, la Corte si sarebbe limitata a rispondere ai motivi di appello proposti dall’imputato nel suo atto di impugnazione personale e non anche ai motivi contenuti nell’appello formulato dal suo difensore. Con il secondo motivo, invece, l’imputato rilevava vizio di motivazione, ritenendo quest’ultima carente e insufficiente rispetto alla scelta di comminare la pena detentiva al posto di quella pecuniaria. Si evidenziava, nello specifico, che il caso in esame non rientrasse tra le ipotesi di eccezionale gravità che secondo la Corte costituzionale legittimano la pena detentiva.

LA QUESTIONE

La questione posta all’attenzione della Corte di Cassazione attiene all’applicabilità della pena detentiva nell’ipotesi di diffamazione aggravata a mezzo Facebook.

LA SOLUZIONE

La Cassazione ha dichiarato il ricorso parzialmente fondato.

In relazione al primo motivo, la Corte ha ritenuto che i giudici di seconde cure avessero fornito risposta sia all’appello presentato personalmente dall’imputato sia all’appello presentato dal suo difensore, in quanto entrambi, di fatto, recavano le medesime questioni. A queste la Corte di Appello aveva dato risposta esaustiva confermando la configurabilità del reato di diffamazione e la contestuale assenza della scriminante del diritto di critica o del diritto di cronaca.

Il secondo motivo, invece, è stato ritenuto fondato, in quanto la Corte territoriale non ha fornito alcuna argomentazione circa la scelta del trattamento sanzionatorio consistente in una pena detentiva.

Sul punto, la Cassazione ha affermato che nelle ipotesi di diffamazione mediante mezzi diversi dalla stampa è sempre possibile l’applicazione della pena detentiva, purché sia individuabile una grave lesione dei diritti fondamentali. In assenza di tale presupposto, la pena detentiva non è costituzionalmente giustificata secondo quanto previsto dalla Corte costituzionale.

La Corte osserva anche che escludere la pena detentiva per la diffamazione commessa mediante social networks per confinarla solo alle ipotesi di diffamazione commessa mediante la stampa rischierebbe di integrare una violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

Dunque, in ragione della centralità del requisito della grave lesione dei diritti fondamentali per la condanna ad una pena detentiva, il giudice di merito è tenuto ad accertarne la sussistenza e a darne atto nella motivazione.

Sulla scorta di tali osservazioni e dell’assenza di un’argomentazione a sostegno della pena detentiva, la Cassazione ha quindi annullato la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Nota a cura di Maria Pascazio, Dottoressa di ricerca