Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Atti persecutori: non occorre una perizia medica per accertare gli eventi tipici

Cass. pen., Sez. V, 20 marzo 2025, sentenza n. 11251

LE MASSIME
“In tema di atti persecutori, ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato, ha rilevanza il comune movente, che pur essendo estraneo alla nozione di dolo, lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti persecutori e la sua dimensione plurisoggettiva, intesa come volontà comune di concorrere nel reato.”

“In tema di atti persecutori, la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato possa essere desunta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante, senza che sia necessario che essi trasmodino in un vero e proprio stato patologico, che può assumere rilevanza solo nell’ipotesi di concorrente contestazione del delitto di lesioni: essendo, pertanto, sufficiente, per la consumazione del delitto ex art. 612-bis cod. pen., che gli atti persecutori abbiano destabilizzato l’equilibrio psicologico della vittima in modo “grave” e “perdurante”, e dunque in modo oggettivamente rilevabile e non confinato nella mera percezione soggettiva della vittima”.


IL CASO
La Corte d’Appello, a conferma del giudizio di primo grado, ha condannato, in concorso, i ricorrenti per il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., lesioni (artt. 582 e ss. c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.). Gli imputati, infatti, membri di due diverse famiglie, hanno posto in essere condotte reiterate al fine di perseguitare la persona offesa, che aveva denunciato in precedenza uno di loro per estorsione in danno della propria famiglia. All’esito di tali comportamenti, la persona offesa è stata colpita da un grave stato depressivo. Avverso la sentenza i difensori degli imputati hanno proposto ricorsi differenti, sollecitando l’annullamento della pronuncia dei giudici di merito. In particolare, con un primo motivo di doglianza, sono stati rilevati vizi motivazionali e violazioni di legge: le condotte contestate, erano, infatti, secondo la difesa, occasionali e non integralmente provate, poste peraltro in essere da singoli imputati, scevri di qualsivoglia “movente comune”; la persona offesa, inoltre, non era rimasta inerme ma, al contrario, aveva sempre reagito. Ancora, con riferimento ai vizi motivazionali e violazioni di legge, la difesa degli imputati ha sostenuto la mancanza di credibilità della persona offesa, affetta da depressione non cagionata dagli atti subiti ma comunque diagnosticata e influente sull’attendibilità della stessa. Con ulteriori motivi di doglianza è stata dedotta la violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., in quanto senza alcuna motivazione, i giudici di merito non hanno applicato le circostanze attenuanti generiche a soggetti incensurati, discostandosi in tal modo dai limiti edittali previsti per i reati contestati ai ricorrenti.

LA QUESTIONE
La Corte è stata chiamata a valutare, alla luce della vicenda occorsa nel caso di specie, la sussistenza in capo agli imputati del concorso di persone nel reato, nonché ad enucleare le caratteristiche del fatto materiale del reato di atti persecutori.

LA SOLUZIONE
La Cassazione, ritenendo che i motivi dovessero essere trattati unitariamente, ha dichiarato inammissibili tutti i ricorsi, in quanto volti alla mera rivalutazione dei fatti nel merito a fronte delle argomentazioni esaustive, non contraddittorie e, comunque, non manifestamente illogiche espresse dalla corte di merito. La manifesta illogicità della motivazione, prevista dall’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., infatti, presuppone che la ricostruzione proposta dal ricorrente e contrastante con la sentenza impugnata sia inconfutabile, diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie.
Con riferimento specifico all’attendibilità della persona offesa, gli Ermellini hanno, anzitutto, evidenziato che sono stati riscontrati pregressi rapporti economici tra la famiglia della persona offesa e quelle dei ricorrenti che avrebbero dato origine alle condotte persecutorie, di lesioni e di violenza privata in danno della stessa. Inoltre – in richiamo delle statuizioni dei giudici di merito che hanno ritenuto lo stato depressivo e la prostrazione psicologica della vittima conseguenze dirette delle minacce, delle violenze e delle aggressioni subite – la Suprema Corte ha sancito che il determinarsi dell’evento dello stato di ansia e tensione nella vittima prescinde dall’accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo desumersi la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa anche da massime di esperienza. In conseguenza di ciò, è da considerarsi superflua la questione del momento dell’insorgere della patologia depressiva. Sempre con riguardo all’attendibilità della persona offesa, la Suprema Corte ha sancito altresì che per la consumazione del delitto ex art. 612-bis cod. pen., è sufficiente che gli atti persecutori abbiano destabilizzato l’equilibrio psicologico della vittima in modo grave e perdurante, oggettivamente rilevabile. Inoltre, l’eventuale sporadica reazione della persona offesa agli atti persecutori non rende la condotta penalmente lecita, piuttosto, incombe sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, come avvenuto nel caso di specie.
Con riferimento, invece, alla questione del concorso degli imputati, i giudici di legittimità hanno sottolineato che le condotte vessatorie dei ricorrenti sono state ritenute parte di un unico disegno criminoso, in ragione della “contiguità spazio-temporale delle reiterate azioni”, del fatto che le stesse si erano esplicate “nell’ambito del medesimo ristretto contesto abitativo” e della loro “omogeneità”: da ciò emerge che “ciascun imputato era pienamente consapevole delle condotte moleste ed intimidatrici degli altri congiunti rispetto alle quali il proprio apporto contributivo, materiale, funzionale ad accrescerne la carica intimidatrice e quindi la valenza criminosa”. Infatti, in tema di atti persecutori, ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato, ha rilevanza il comune
movente, che pur essendo estraneo alla nozione di dolo, lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti persecutori e la volontà comune di concorrere nel reato.
Infine, con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e al discostamento dai limiti edittali previsti, la Suprema Corte ha evidenziato che i giudici di merito hanno dato motivatamente conto delle ragioni per cui hanno comminato la pena agli imputati, ragioni incensurabili in sede di legittimità.
Di conseguenza, sulla base dell’iter logico-giuridico di argomentazione illustrato, i Giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile tutti i ricorsi e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al pagamento della somma legislativamente prevista da devolvere alla Cassa delle Ammende.