Atti persecutori e abitualità della condotta

Cass. pen., Sez. V, 29 gennaio 2025, sentenza n. 3808
LE MASSIME
“Il delitto di atti persecutori è un reato abituale di danno, «integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice, nonché dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, il quale deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso […], sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento”
“La nozione di molestia, in tema di atti persecutori, quale elemento costitutivo del reato» deve «individuarsi in qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica”
IL CASO
La pronuncia in esame origina dal ricorso per cassazione promosso dall’imputato avverso la sentenza d’appello che, conformandosi all’esito del giudizio di primo grado, riconosceva la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di atti persecutori ex art. 612 c.p. perpetrato in danno due condomini e dipanatosi, secondo impostazione accusatoria, per un arco temporale ricompreso tra il 2012 e il 2018.
Con un primo motivo di gravame, la difesa dell’imputato eccepiva violazione di legge e vizio di motivazione ritenendo che la corte di merito avesse limitato la portata del proprio giudizio alla valorizzazione del profilo soggettivo dell’imputato concernente l’agire seriale del ricorrente, nulla proferendo rispetto all’elemento materiale del reato e alla natura di reato abituale improprio dello stesso. Di più, rilevava l’imputato che l’organo giudicante avesse ritenuto sussistente il “mutamento delle abitudini di vita” postulato dalla norma incriminatrice ai fini della configurazione del reato, consistito nel trasferimento delle persone offese in diversa città sulla scorta di un giudizio privo del necessario rigore probatorio, non curante delle allegazioni contenute nell’atto d’appello. In secondo luogo, l’imputato denunciava violazione degli artt. 158 e 612-bis e vizio di motivazione avuto riguardo alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, atteso che – tenuto conto del massimo edittale di cinque anni applicabile ratione temporis – i termini risultavano già spirati nel corso del giudizio d’appello. Sul punto la difesa asseriva che l’ultimo degli atti lesivi attribuiti all’imputato (consistito nello spoglio del sottotetto di proprietà delle persone offese), integrante l’abitualità del reato, risalisse al 2015, a nulla potendo penalmente rilevare le occasionali condotte poste in essere dall’imputato ascrivibili come “blando disturbo”, neppure sussumibili nell’alveo dell’art. 660 c.p. Rilevava così la difesa travisamento di prova nella parte in cui i giudici di merito avessero ritenuto conclusa l’azione criminosa nell’anno 2018. Infine, veniva eccepita violazione degli artt. 133, 62.bis e 69 c.p. e vizio di motivazione avuto riguardo il giudizio di bilanciamento delle circostanze di segno opposto, rimasto immutato nel senso dell’equivalenza, nonostante la confutazione della difesa sulla gravità del reato e sulla durata dell’agire.
LA QUESTIONE
La Corte di Legittimità, pur ravvisando la sussistenza di un contegno criminoso sussumibile nell’alveo della fattispecie prevista e punita dall’art. 612- bis c.p. (consistito in propalazioni rumoroso moleste, pretestuose denunce e richieste di intervento dei Carabinieri, epiteti offensivi), ha ritenuto fondati i motivi di gravame eccepiti dall’imputato rilevando difetto di specificità della sentenza in punta di fatto e di collocazione temporale delle condotte pur a fronte delle doglianze della difesa, che ha prospettato una soluzione di continuità a seguito di due specifici eventi (ammonimento rivolto all’imputato dal Questore nel 2014 e trasferimento delle persone offese nel 2015).
LA SOLUZIONE
La sezione V della Corte di Cassazione chiamata a vagliare le doglianze dell’imputato, rimettendosi alla giurisprudenza ormai consolidatasi, ha ridelineato i confini del delitto di atti persecutori soffermandosi in particolare sul concetto di “lasso temporale” rilevante ai fini della fattispecie richiamata e sul significato da attribuire alla nozione di molestia.
Segnatamente, il collegio giudicante ha ribadito che si configura il delitto in parola anche quando la reiterazione criminosa sia intervallata da un prolungato iato temporale, rilevando sotto il profilo della materialità del reato qualsiasi condotta in grado di assurgere a subdola interferenza o ingerenza indebita nell’altrui vita privata, suscettibile di creare un clima intimidatorio ed ostile idoneo a turbare la serenità e la libertà psichica. Ciò che rileva ai fini della configurabilità del delitto in parola è la reiterazione seriale di contegni molesti che nel loro complesso siano in grado di assumere specifica ed autonoma offensività e che siano causalmente orientati alla determinazione dello stato di soggezione psicologica della vittima tale sfociare nelle forme descritte dalla norma incriminatrice.