Abrogazione dell’abuso d’ufficio e obblighi internazionali: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale

Cass. pen., Sez. VI, 7 marzo 2025, ordinanza n. 9442
L’ ORDINANZA
“Il Collegio, ai sensi dell’art. 23 co. 3 della Legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara, d’ufficio, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 co. 1 lett. b) della Legge 9 agosto 2024 n. 114, che abroga l’art. 323 c.p., in riferimento agli artt. 11 e 117 co. 1 della Costituzione, in relazione agli artt. 1, 7 co. 4, 19 e 65 co. 1 della s dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con Legge 3 agosto 2009, n. 116.”
IL CASO
La vicenda, da cui prende le mosse l’ordinanza in commento, si estrinseca all’interno di una lunga e complessa vicenda relativa ad un caso di abuso d’ufficio, i cui contorni fattuali poco rilevano sull’ordinanza in commento. Ad ogni buon conto in tale contesto il Tribunale territorialmente competente condannava il consigliere comunale imputato, nella sua qualità di pubblico ufficiale, per il reato di abuso d’ufficio. La Corte d’Appello territorialmente competente, a seguito della rinuncia alla prescrizione da parte dell’imputato, ha ritenuto di confermare la sentenza del Tribunale. La Difesa con tempestivo ricorso per Cassazione eccepiva l’intervenuta abolitio criminis del delitto di cui all’art. 323 c.p. e chiedeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
LA QUESTIONE
La questione di diritto oggetto dell’ordinanza di remissione alla Consulta riguarda sostanzialmente due profili: il primo riguarda l’astratta ammissibilità, stante la riserva di Legge ex art. 25 co. 2 Cost., di una censura, con effetto abrogativo in malam partem, da parte del Giudice delle Leggi relativamente ad un’abolitio criminis operata dal Legislatore. La seconda, più pregante, questione riguarda l’ammissibilità dell’abrogazione della fattispecie di abuso d’ufficio qualora questa vada a confliggere con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia. Nello specifico, la Cassazione si domanda se gli obblighi assunti dall’Italia in relazione agli artt. 1, 7 co. 4, 19 e 65 co. 1 della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione – adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con Legge 3 agosto 2009, n. 116 – siano tali da essere sussumibili nell’alveo degli artt. 11 e 117 della Carta Costituzionale; e, per l’effetto, se la Legge che è andata ad abrogare il delitto di cui all’art. 323 c.p. sia da considerarsi incostituzionale. A ben vedere, l’art. 19 della summenzionata Convenzione impone all’Italia l’obbligo di “valutare” l’adozione delle misure legislative, e delle altre misure necessarie, per conferire il carattere di illecito penale a: atti dolosi di un pubblico ufficiale nell’abuso delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia quando costui compie o di astenersi dal compiere un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per altri. Parimenti, l’art. 65 – della Convenzione di cui sopra – impone allo Stato sottoscrittore di non ridurre il livello di tutela del bene giuridico tutelato, pertanto, la violazione dei summenzionati articoli potrebbe comportare l’incostituzionalità della norma abrogatrice dell’abuso d’ufficio.
LA SOLUZIONE
Il Supremo Collegio ha ritenuto di sollevare, d’ufficio, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 co. 1 lett. b) della Legge 9 agosto 2024 n. 114, in primis risolve il Collegio affronta la questione relativa
all’astratta ammissibilità del sindacato della Consulta in materia penale con effetti anche in malam partem. La Cassazione – partendo dalla sentenza n. 37 del 2019 della Consulta – ha ricordato che nonostante, in linea di principio, siano inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente fattispecie incriminatrice che mirino al ripristino nell’Ordinamento della norma incriminatrice abrogata; tale principio non è privo di eccezioni. Invero, non è ammissibile la creazione di “zone franche”, immuni dal controllo di legittimità, di norme abrogatrici di fattispecie penali in violazione del principio di eguaglianza; parimenti può essere censurato lo scorretto esercizio del potere legislativo. In conseguenza di ciò la Cassazione ha già ritenuto che sia ammissibile un effetto peggiorativo delle sanzioni penali conseguenti alla pronuncia di illegittimità costituzionale allorché esso si configuri come “mera conseguenza indiretta”. Da ultimo, come nel caso di specie, la Consulta – con una motivazione fatta propria dal Supremo Collegio – ha ritenuto che un controllo di legittimità costituzionale, con potenziali effetti in malam partem, può risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117 Cost (citando ex multis le sentenze n. 28 del 2010 e n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale).
Chiarito questo primo, cruciale, scoglio interpretativo la Suprema Corte ha spiegato perché, nel caso di specie, si potrebbe vertere in quest’ultima ipotesi, ossia: nella violazione degli artt. 11 e 117 Cost.. Sul punto la Corte rileva come, in primo luogo l’art. 7 della Convenzione pone uno specifico obbligo – rectius “ciascuno Stato si adopera” – relativo al perseguimento di efficaci standard preventivi della corruzione per come sanciti dalla Convenzione. Nello specifico l’art. 19 impone l’obbligo di valutare l’adozione delle misure legislative (o di altre misure) necessarie per conferire il carattere di illecito penale, ad atti sostanzialmente sovrapponibili con l’ormai abrogato reato di abuso d’ufficio. Tale articolo, però, deve essere letto in maniera organica, infatti, sebbene la Convenzione imponga soltanto l’obbligo di valutare l’utilizzo della sanzione penale tale tipologia di sanzione – invero questa non è imposta tout court come in altri casi – l’art. 64 della Convenzione, utilizzando il verbo “mantain” obbliga gli Stati contraenti, nel processo di progressiva attuazione degli obiettivi della Convenzione, a non retrocedere dagli standard raggiunti. Per l’effetto secondo la Sezione remittente, vi sarebbe un vero e proprio obbligo di astensione dall’adozione di misure che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto nel perseguimento degli scopi della Convenzione. Tale disposizione, ovviamente, non significa che la tutela non possa essere raggiunta con strumenti diversi dalla repressione penale, invero, lo Stato contrante è obbligato, esclusivamente, a valutare lo strumento del diritto penale per la repressione di tale fenomeno. Tuttavia, una lettura organica della Convenzione, secondo il Supremo Collegio, impone una valutazione rafforzata – in ordine al mantenimento degli standard raggiunti, ex art. 64 della Convenzione, – nell’abrogazione della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., con la contestuale predisposizione di strumenti diversi che forniscano una tutela efficace delle condotte prima represse in sede penale.
Ad avviso della Corte di Cassazione non risultano essere soddisfacenti né la valutazione di cui sopra, né gli strumenti residui di repressione delle condotte che, fino al 2024, erano presidiate dall’art. 323 c.p.. Invero, nella relazione introduttiva al DDL n. S. 808, divenuto poi L. 114/2024, si legge che l’abrogazione è stata pensata, principalmente, per lo squilibrio tra iscrizioni della notitia criminis e decisioni di merito e non per un riequilibrio degli assetti di politica criminale in materia di corruzione. La Corte ritiene che vi è stato arretramento di tutela contrario agli standard della Convenzione, ciò poiché nessuna disposizione penale consente di sanzionare l’esercizio arbitrario di una funzione pubblica, con prevaricazione a danno “degli altrui diritti”, se il fatto non è commesso con violenza o minaccia (concussione) o a fronte della promessa o della dazione di un corrispettivo illecito (corruzione). Parimenti non paiono efficaci le sanzioni amministrative, disciplinari ed erariali non garantiscono più lo standard (di cui all’art. 64 della Convenzione) e non tutelano il privato oggetto di tali condotte. In conclusione, il Collegio ha ritenuto trasmettere gli atti alla Consulta per il vaglio di costituzionalità dell’art. 1 co. 1 lett. b) della Legge 9 agosto 2024 n. 114, che abroga l’art. 323 c.p..