Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Il confine tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Cass. pen., Sez. II, 17 luglio 2025, sentenza n. 26168

LA MASSIMA

“Ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa coltivata dall’agente deve corrispondere all’oggetto della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico e non risultare, in qualche modo, più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione operata dall’agente dello strumento di tutela pubblico con quello privato. L’agente, quindi, deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa possa essere fatta valere in giudizio. Inoltre, la fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, si integra solo se l’azione, posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, è commessa al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto l’incarico, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé.”

IL CASO

La vicenda in esame trae origine da un ricorso per Cassazione, presentato dall’imputato, avverso la sentenza emessa dal Giudice di seconda istanza, che aveva confermato la colpevolezza del ricorrente, in ordine a due episodi di tentata estorsione aggravata.

Con il quarto motivo, l’imputato, tramite il proprio difensore, contestava la qualificazione giuridica del fatto, ai sensi dell’art. 629 c.p., anziché ai sensi dell’art. 393 c.p., avendo il ricorrente agito – contrariamente a quanto ritenuto in sentenza – per l’ottenimento del credito legittimo che si vantava nei confronti della persona offesa e non per un interesse personale.

LA QUESTIONE

La questione di diritto evidenzia il confine tra il delitto di estorsione e il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ex art. 393 c.p.

LA SOLUZIONE

La Corte di Cassazione dichiarava il motivo di doglianza in esame aspecifico e manifestamente infondato.

Secondo il Collegio, invero, la Corte di appello – pur riconoscendo che l’imputato era intervenuto nella fase iniziale della vicenda estorsiva per supportare la pretesa creditoria vantata dal titolare del credito nei confronti della persona offesa, affinché quest’ultima onorasse il suo debito, aveva altresì evidenziato che, nel prosieguo, il ricorrente aveva manifestato un interesse personale nella vicenda, tanto da pretendere il 50% del recupero di quanto già fatturato nonché aveva contestato il piano di rientro concordato dal medesimo con la persona offesa (il pagamento di 5.000,00 euro mensili fino alla completa estinzione del debito), pretendendo perentoriamente da quest’ultima, entro la fine del mese, l’elargizione della somma di 30.000,00 euro.

La decisone della Corte di appello si conformava, dunque, all’indirizzo espresso dalla sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite “Filardo” che, a proposito dell’intervento di terzi a tutela di un diritto altrui, avevano affermato il principio di diritto secondo cui, per la configurabilità del delitto di ragion fattasi, era necessario che il terzo avesse commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale avesse ricevuto l’incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio. Qualora il terzo agente, seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile nell’art. 110 c.p. e 393 c.p., avesse iniziato ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, doveva ritenersi che tale condotta integrasse gli estremi del concorso nel reato di estorsione, ex artt. 110 e 629 c.p.

Il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile, dunque, nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.

Dunque, ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve corrispondere all’oggetto della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico e non risultare in qualche modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione operata dall’agente dello strumento di tutela pubblico con il privato. L’agente, quindi, deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente.

In altre parole, perché sussista il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e non quello di estorsione, nell’azione posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che l’agente commetta il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé.

Dalle dichiarazioni rese dai vari testi sentiti è emerso pertanto che l’imputato aveva agito al fine di ottenere un profitto proprio, sicché correttamente i giudici di merito avevano escluso di poter qualificare il fatto ai sensi dell’art. 393 c.p.

Segnalazione a cura di Maria Stella Liguori