Cassazione, Diritto Processuale Penale, Sentenze

Inutilizzabilità di un elemento a carico e prova di resistenza delle residue emergenze probatorie

Cass. Pen., Sez. II, 30 giugno 2025, sentenza n. 24105

LA MASSIMA

“In tema di misure cautelari personali, il motivo di ricorso che deduca l’inutilizzabilità di uno specifico elemento probatorio (es. dichiarazioni non garantite ex art. 63 c.p.p.) è inammissibile per difetto di specificità se non illustra l’incidenza dell’espulsione di tale elemento alla luce della prova di resistenza delle restanti emergenze. Inoltre, è preclusa in sede di legittimità ogni censura non previamente devoluta al Tribunale del riesame, in quanto richiede un previo scrutinio di merito non esperibile in Cassazione.”

IL CASO

Nel caso in esame, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, che aveva confermato la custodia cautelare in carcere disposta nei confronti del ricorrente per i reati di cui agli artt. 81, 110, 512-bis, 629 co. 2 e 416-bis.1 c.p., aggravati dall’agevolazione mafiosa, in relazione a due distinti capi di imputazione.

Il ricorrente ha sollevato quattro motivi di impugnazione: 1) l’inutilizzabilità patologica delle dichiarazioni rese da uno dei sodali sentito in qualità di persona informata sui fatti e non in qualità di indagato, in violazione dell’art. 63 c.p.p., la carenza di motivazione sull’attendibilità del medesimo, nonché sull’elemento soggettivo del reato di trasferimento fraudolento di valori; 2) la medesima questione di inutilizzabilità riferita all’accusa di estorsione, nonché la mancanza di un’analisi sulla reale efficacia intimidatoria delle condotte contestate, posto che la vittima avrebbe tenuto comportamenti del tutto incompatibili avrebbe reagito in modo incompatibile con uno stato di coartazione; 3) l’assenza di motivazione in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa; 4) l’assenza di esigenze cautelari concrete e attuali, non potendo fondarsi la custodia in carcere su presunzioni automatiche, anche in considerazione del tempo trascorso e della risalenza dei precedenti penali.

LA QUESTIONE

La questione centrale ruota attorno all’inutilizzabilità patologica delle dichiarazioni rese da un soggetto che, in ragione del suo coinvolgimento nei fatti, avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie previste dall’art. 63 c.p.p. Vi sarebbe, di conseguenza, un vizio genetico dell’intero impianto indiziario e delle valutazioni cautelari fondate su tali dichiarazioni.

La sentenza in esame risolve principalmente la questione della deducibilità e rilevanza, ai fini dell’impugnazione in sede di legittimità, dell’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese da un soggetto che si assumeva dovesse essere sentito come indagato, in quanto coinvolto nei fatti oggetto di indagine.

LA SOLUZIONE

La Corte di cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile sulla base di una triplice ratio decidendi.

Con riferimento alla dedotta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in violazione dell’art. 63 c.p.p., la Corte ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la mancata deduzione della censura avanti al giudice del riesame impedisce la piena e corretta devoluzione in sede di legittimità. In particolare, ove il ricorso lamenti l’inutilizzabilità di uno specifico elemento a carico, il motivo di doglianza deve illustrare, a pena di inammissibilità, l’incidenza dell’eventuale espunzione di tale elemento, alla luce del criterio della prova di resistenza del residuo compendio probatorio.

Il ricorrente, alla luce dell’art. 309 c.p.p., ha inoltre l’onere di specificare le doglianze riguardanti il merito, così da stimolare il giudice del riesame a fornire motivazioni adeguate e complete che possano poi essere esaminate dalla Corte di legittimità. All’uopo, la Corte opera una distinzione tra dichiarazioni inutilizzabili e dichiarazioni rese in denuncia-querela. Nel caso di specie, le dichiarazioni che sarebbero da ritenersi inutilizzabili, sono state rese in sede di denuncia-querela; pertanto anche se rese da un soggetto potenzialmente “indagabile”, esse possono comunque essere legittimamente utilizzate in quanto, se rese spontaneamente, non sono soggette alle garanzie di cui all’art. 63 c.p.p. Nel caso di specie, la difesa si sarebbe limitata a sollevare una censura astratta e generica, senza svolgere un’analisi concreta sull’idoneità del restante materiale investigativo.

Anche la censura circa l’asserita assenza di condotte estorsive è stata considerata inammissibile, poiché non consentita in presenza di una motivazione congrua, logica e coerente con gli elementi probatori, che fonda l’accusa sul nesso causale tra le minacce camorristiche e la cessione forzata delle quote societarie.

Parimenti infondate sono le doglianze relative alla contestata aggravante mafiosa ex art. 416-bis.1 c.p., essendo stato accertato, già in sede cautelare, il radicamento criminale del ricorrente nel clan, in qualità di fiduciario del boss, con piena consapevolezza dell’intestazione fittizia delle quote alla consorteria.

Infine, il mancato annullamento in punto di aggravante mafiosa, fa venire meno il presupposto logico-giuridico dell’ultimo motivo di doglianza fondato sulla mancanza di esigenze cautelari. La Corte ha riaffermato l’operatività della presunzione relativa di pericolosità di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. in caso di reati aggravati dall’art. 416-bis.1, che può dirsi superata solo in presenza di elementi contrari desumibili dalla condotta, dalla distanza temporale dai fatti o dalla natura dei precedenti, elementi che nel caso di specie risultano assenti, alla luce della gravità dei reati precedenti e della perdurante contiguità con la criminalità organizzata. Per tali ragioni, la misura carceraria è stata ritenuta non solo legittima, ma necessaria e proporzionata.

Nota a cura di Valentina Musorrofiti