Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Modifiche deteriori del rapporto lavorativo ed estorsione: la coartazione mediante la prospettazione del licenziamento

Cass. Pen., Sez. II, 9 luglio 2025, sentenza n. 25359

LA MASSIMA

Secondo l’orientamento di legittimità prevalente, va esclusa l’estorsione allorché, nel momento genetico del rapporto lavorativo, il datore di lavoro prospetti agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione e la perdita dell’opportunità di lavoro, in quanto, pur sussistendo un ingiusto profitto per il primo, costituito dal conseguimento di prestazioni d’opera sottopagate, non ricorre la prova che l’ottenimento di un impiego rechi un danno ai lavoratori rispetto alla preesistente situazione di disoccupazione. Laddove, invece, il rapporto di lavoro sia già in atto, pur se solo di fatto e non conforme ai modelli legali, va ricondotta nel paradigma dell’estorsione la pretesa di ottenere vantaggi patrimoniali da parte del datore di lavoro attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell’accordo tra le parti, destinate a regolare gli aspetti aventi rilevanza patrimoniale, prospettando l’interruzione del rapporto di lavoro attraverso il licenziamento del dipendente.”

IL CASO

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento è stata chiamata a pronunciarsi avverso la sentenza di secondo grado con cui la Corte d’Appello ha assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 629 c.p. In particolare, egli nella qualità di datore di lavoro, prospettando il licenziamento, coartava la volontà del dipendente facendogli compilare dei modelli di disoccupazione, conseguendo comunque dallo stesso la prestazione di attività lavorativa in nero con assenza della dovuta contribuzione.

Nei primi due gradi di giudizio la penale responsabilità dell’imputato è stata esclusa per insussistenza dell’elemento oggettivo del reato stante l’assenza di danno in capo alla persona offesa: è emerso, difatti, che il rapporto di lavoro era stato da sempre connotato dall’accettazione, da parte del dipendente, di condizioni deteriori rispetto a quelle previste dalla contrattazione collettiva.

Avverso la sentenza di secondo grado ha presentato ricorso il Procuratore Generale, il quale nell’unico motivo lamenta violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p. in cui sarebbe incorsa la decisione impugnata. In particolare, il giudice di seconde cure non ha considerato che la giurisprudenza di legittimità distingue, ai fini della configurabilità dell’estorsione di cui all’art. 629 c.p., tra la fase genetica del rapporto di lavoro e quella esecutiva.

LA QUESTIONE

L’oggetto della questione, dunque, è costituito dalla configurabilità dell’estorsione in relazione alla condotta del datore di lavoro che, mediante la prospettazione dell’interruzione del rapporto lavorativo, coarta la volontà del prestatore di lavoro facendogli accettare condizioni contrattuali patrimonialmente deteriori, conseguendone così un profitto ingiusto.

LA SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, nel ritenere fondato il ricorso del P.G., ha censurato l’applicazione dei principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia. Invero, l’orientamento prevalente esclude la configurabilità dell’estorsione nelle ipotesi in cui al “momento genetico del rapporto lavorativo il datore di lavoro prospetti agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione e la perdita di opportunità di lavoro”. Difatti, le prestazioni sottopagate eventualmente conseguite dal datore di lavoro costituiscono sì per lo stesso un ingiusto profitto, ma non ricorre la prova che il mancato ottenimento di un impiego rechi un danno ai lavoratori, in forza del preesistente stato di disoccupazione. Per converso, laddove “il rapporto di lavoro sia già in atto, pur se solo di fatto e non conforme ai modelli legali, va ricondotta nel paradigma dell’estorsione la pretesa di ottenere vantaggi patrimoniali da parte del datore di lavoro attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell’accordo tra le parti, destinate a regolare gli aspetti aventi rilevanza patrimoniale, prospettando l’interruzione del rapporto di lavoro attraverso il licenziamento del dipendente”. Pertanto, il principio di diritto applicato dalla sentenza impugnata che fa leva sulla persistente accettazione da parte del lavoratore di condizioni deteriori rispetto a quelle previste dalla contrattazione collettiva, risulta confacente al solo momento genetico del rapporto. Di contro, lo stesso principio non appare applicabile alla condotta di coartazione operata sul dipendente per “sottoscrivere, quale conseguenza di quei reiterati licenziamenti, anche modelli di disoccupazione pur continuando a lavorare in nero”, ipotesi che si estrinseca nel momento esecutivo del rapporto di lavoro. In tale evenienza, infatti, non sussiste un esercizio di un diritto o facoltà da parte del datore di lavoro, bensì “un modus operandi che integra gli estremi della minaccia “contra ius”, facendosi ricorso al licenziamento per coartare la volontà altrui ed ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti, né conformi a giustizia, se si considera che, proprio in conseguenza di tale agire, il lavoratore perdeva sistematicamente il diritto alla contribuzione, anche ai fini del TFR”. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata con rinvio per un nuovo giudizio alla Corte d’Appello territorialmente competente. Quest’ultima dovrà valutare se la “compilazione dei modelli di disoccupazione ai quali conseguiva la prestazione di attività lavorativa in nero, con assenza della dovuta contribuzione” sia ascrivibile al momento genetico del rapporto di lavoro ovvero rilevi quale elemento di novità scaturito nella fase di esecuzione dello stesso, accertando, altresì, il nesso eziologico con la minaccia costituita dalla prospettazione del licenziamento.

Nota a cura di Mirco Paglia