Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Crisi di liquidità e forza maggiore nei reati tributari

Cass. pen., Sez. III, 5 giugno 2025, sentenza n. 21261

LA MASSIMA

“In tema di reati di omesso versamento di imposte di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, la rilevanza dell’inesigibilità del versamento delle ritenute certificate, in caso di crisi di liquidità dell’impresa, presuppone, comunque, che della crisi di liquidità effettiva sia stata offerta piena prova, come pure dell’interruzione dell’eventuale nesso causale con la condotta dell’imputato e, soprattutto, dell’estraneità del medesimo anche circa il momento rappresentativo del dolo. E infatti, le semplici difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono di per sé riconducibili al concetto di forza maggiore che, postulando la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto dalla condotta dell’agente, così da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente. In definitiva, la responsabilità può essere esclusa solo ove l’impresa dimostri di aver fatto tutto il possibile per recuperare le risorse economiche necessarie ai propri obblighi tributari, ricorrendo ad esempio al credito bancario o al factoring, ovvero eseguendo i pagamenti dovuti subito dopo aver incassato le somme di cui era creditrice”.

IL CASO

L’imputato, legale rappresentante di una S.p.a., è stato condannato in primo grado alla reclusione di 1 anno e 2 mesi e alla confisca per equivalente di oltre 2,6 milioni di euro, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 81, secondo comma, c.p., e 10-bis del d.lgs. n. 74/2000, per non aver versato, in qualità di legale rappresentante della società, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, limitatamente alle annualità 2015 e 2016, e ai sensi dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000, per non aver versato l’IVA dovuta sulla dichiarazione annuale per il 2016, entro il termine legislativamente previsto.

In sede di appello, la Corte territoriale ha dichiarato poi estinto il reato inerente al 2015 per prescrizione, riducendo sia la pena detentiva che la somma oggetto di confisca per equivalente.

Avverso detta pronuncia l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione. Con il primo motivo, il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio motivazionale in ordine al giudizio di colpevolezza, per aver la Corte territoriale ritenuto insussistente la causa di forza maggiore determinata dalla crisi economica della S.p.a., non imputabile al ricorrente. Con il secondo motivo, invece, ha denunciato la violazione degli artt. 133 c.p. e 12 d.lgs. n. 74/2000 inerenti alla pena accessoria dell’interdizione e, con il terzo motivo, la violazione degli artt. 27 Cost., 157 c.p., e 12 d.lgs. n. 74/2000, per mancata riduzione delle pene accessorie a seguito di prescrizione parziale. Infine, con il quarto motivo, l’imputato ha lamentato vizio di motivazione e violazione dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, in quanto la confisca per equivalente sarebbe stata disposta senza previa verifica circa la possibilità di confiscare direttamente i beni della società.

LA QUESTIONE

La Corte è chiamata a valutare, in primis, la configurabilità dell’attenuante della forza maggiore ex art. 45 c.p. nei casi di crisi di liquidità dell’impresa per ritardi nei pagamenti da parte della PA. Inoltre, in ordine al secondo e al terzo motivo, la Corte deve determinare il coordinamento tra prescrizione parziale e pene accessorie. Infine, la Corte è poi chiamata a valutare la legittimità della confisca per equivalente nei confronti dell’amministratore in assenza di una previa verifica del patrimonio societario.

LA SOLUZIONE

La Corte ha accolto parzialmente il ricorso dell’imputato, ritenendo fondati il secondo e il terzo motivo di doglianza, riferiti alla durata della pena accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese.

In ordine al primo motivo, richiamando precedenti pronunce, la Corte ha ritenuto infondate le censure relative alla forza maggiore, in quanto la crisi di liquidità può valere come scriminante solo se, da un lato, sia stata adeguatamente documentata e non riconducibile a scelte gestionali imputabili all’imputato mentre, dall’altro, l’imprenditore abbia fatto tutto il possibile per rispettare gli obblighi fiscali, attivandosi con strumenti ordinari quali l’accesso al credito, cosa non avvenuta nel caso in esame. Nello specifico, continua la Corte, la crisi di settore o i ritardati pagamenti della PA non sono sufficienti a provare l’impossibilità assoluta e imprevedibile di adempiere alle proprie obbligazioni. Inoltre, conformemente a quanto rappresentato dai giudici di merito, la cui valutazione è conforme, la situazione di dissesto della società era nota e prevedibile e l’imputato aveva effettuato scelte consapevoli di allocazione delle risorse in favore di altri crediti, omettendo i versamenti tributari.

La Corte ha poi deciso di trattare in modo unitario il secondo e il terzo motivo di doglianza, inerenti alla pena accessoria comminata. Invero, la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto che la pena in esame fosse stata irrogata dal Tribunale nella misura minima e, in conseguenza, non ha provveduto alla sua riduzione, nonostante la declaratoria di prescrizione di uno dei reati. In ragione della chiara volontà del giudice territoriale di applicare la pena accessoria nel minimo, con tale pronuncia la Corte, annullando senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente a tale profilo, ha deciso di ridurre direttamente la pena alla durata minima legale di sei mesi.

Infine, relativamente al quarto motivo, la Suprema Corte ha ribadito che la confisca per equivalente è misura legittimamente esperibile anche senza l’esperimento del tentativo di confisca diretta del patrimonio societario. Invero, lo stato di amministrazione controllata della S.p.a. rendeva ipotetica l’effettiva aggredibilità dei beni aziendali e, inoltre, nessuna prova è stata offerta dalla difesa in senso contrario.

Pertanto, la Corte ha annullato la sentenza impugnata senza rinvio, riducendo a mesi sei la durata della pena accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e rigettando nel resto il ricorso.

Nota a cura di Giacomo Migliarini (avvocato)