Maltrattamenti contro familiari o conviventi: condotta tipica abituale

Cass. pen., Sez. II, 12 dicembre 2024, sentenza n. 45597
LA MASSIMA
“Il delitto di maltrattamenti è integrato da comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione”.
IL CASO
La Corte d’Appello, a conferma del giudizio di primo grado, ha condannato, in concorso, i ricorrenti – rispettivamente figlio e moglie della persona offesa – per il delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., per il delitto di cui all’art. 628, comma 3 n. 1 e 3-quinquies c.p., nonché per il delitto di lesioni aggravate (artt. 582 e 585 c.p.).
Avverso la sentenza ricorrevano i difensori degli imputati, proponendo l’annullamento della pronuncia dei giudici di merito con motivazioni pressoché analoghe.
Con il primo motivo di doglianza, la difesa degli imputati sosteneva che la Corte d’Appello avesse basato la condanna sull’attendibilità della persona offesa e sui riscontri estrinseci delle dichiarazioni di quest’ultima, nonostante elementi di prova contrastanti. I giudici di merito, inoltre, a sostegno della credibilità della vittima, avevano erroneamente motivato sul fatto che questa non si era costituita parte civile, diversamente da quanto realmente accaduto. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dalla difesa, la persona offesa non aveva subito maltrattamenti ed, anzi, aveva deliberatamente scelto di tornare a vivere con la moglie imputata nonostante si fosse separato da lei circa dieci anni prima, reinserendosi, peraltro, in un contesto familiare di indigenza. Gli imputati, inoltre, non avevano alcuna posizione di garanzia nei confronti della persona offesa e non erano tenuti a prestarle assistenza, essendo la “presunta vittima” autonoma e non foriera di menomazioni o handicap. L’accusa di maltrattamenti e le precarie condizioni igieniche in cui la stessa versava al momento della contestazione del reato non potevano dirsi, dunque, sintomatiche di una responsabilità in capo agli imputati, tantopiù che loro stessi vivevano in condizioni di indigenza. Anche in ordine alle ulteriori fattispecie contestate la difesa eccepiva delle doglianze. Secondo la tesi difensiva, in particolare, l’accusa di rapina mossa al figlio della persona offesa era falsa: l’imputato, infatti, aveva ricevuto il bancomat oggetto del reato dallo stesso padre per la gestione del ménage familiare e lo aveva subito restituito, come confermato anche dalla vittima che, peraltro, nel corso della deposizione si era contraddetta più volte. Né vi erano riscontri, neppure da parte della persona offesa, in merito al reato di lesioni. Alla luce di tali considerazioni, le difese degli imputati avevano lamentato che erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto superfluo rinnovare il dibattimento per far testimoniare l’altro figlio della persona offesa, tantopiù che quest’ultima aveva reso una deposizione
dotata di molteplici incongruenze. Inoltre, la motivazione dei giudici di merito era manchevole e contraddittoria in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti.
LA QUESTIONE
La Corte è stata chiamata a valutare, alla luce della vicenda occorsa nel caso di specie, le caratteristiche del fatto materiale del reato di maltrattamenti e la valenza processuale delle dichiarazioni della persona offesa.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, ritenendo che i motivi dovessero essere trattati unitariamente, ha dichiarato inammissibili entrambi i ricorsi. Con riferimento alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, gli Ermellini – richiamando un orientamento ormai consolidato e ritenendo la doglianza generica e reiterativa del ricorso in appello – hanno ribadito che le stesse, in deroga ai principi di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p., possono essere poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, purché la persona offesa sia credibile e il suo racconto sia intrinsecamente attendibile. Tale valutazione deve avvenire all’esito di un controllo più penetrante e rigoroso rispetto a quello fatto con riferimento ad altri testimoni, che, tuttavia, può essere fatto dal giudice con ampi margini di apprezzamento circa le modalità di controllo dell’attendibilità nel caso concreto. Da ultimo, la Suprema Corte ha evidenziato che la valutazione circa a credibilità della persona offesa non può essere rivalutata dal giudice di legittimità, salvo che vi siano state manifeste contraddizioni nel merito. Ciò nel caso di specie non è avvenuto: la Corte d’Appello ha debitamente motivato sull’attendibilità del racconto della persona offesa, che, peraltro, è stato confermato dagli altri testimoni che hanno riferito di uno stato di prostrazione della vittima conseguente alle sofferenze inferte dagli imputati e di uno stato di indigenza. La Corte, in relazione al reato di maltrattamenti, ha ribadito che lo stesso è integrato da comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione; in tale contesto, i giudici di primo grado hanno rilevato una piena congruenza tra le dichiarazioni della persona offesa e i testimoni che hanno riferito di una situazione di degrado e di sporcizia in cui la vittima era costretta a vivere. Anche con riferimento al reato di lesioni, la conferma della sussistenza del reato è avvenuta da parte di diversi testimoni, oltre che dalla persona offesa, che pure aveva riferito che l’imputato lo aveva fatto cadere cagionandogli un sanguinamento alla testa. Parimenti inammissibile e irrilevante è stata dichiarata la doglianza con cui la difesa aveva evidenziato che – differentemente da quanto detto dai giudici di merito – la persona offesa si era costituita parte civile. In tal caso, infatti, il motivo del ricorso avrebbe dovuto illustrare l’incidenza di tale dato che, nei fatti, non solo non è stata posta in evidenza dalla difesa ma neppure c’è. Ancora, con riferimento alla mancata assunzione della prova della testimonianza dell’altro figlio della persona offesa, gli Ermellini hanno sottolineato che la doglianza
poteva essere eccepita solo nel caso in cui la difesa avesse sollecitato dinanzi ai giudici di merito il mezzo di prova ai sensi dell’art. 507 c.p.p., ma anche in tal caso – non essendo stato citato il teste – il motivo è stato considerato manifestamente infondato. Da ultimo, su, giudizio comparativo tra aggravanti e attenuanti, i giudici di legittimità hanno statuito che la doglianza è eccepibile e, conseguentemente, sindacabile solo se la comparazione è stata frutto di mero arbitrio o illogicità. Dal momento che la Corte d’Appello ha effettuato un giudizio di merito scevro di tali difetti, anche l’ultimo motivo è stato ritenuto infondato.
Di conseguenza, sulla base dell’iter logico-giuridico di argomentazione illustrato, i Giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile il ricorso di entrambi gli imputati.