Maltrattamenti in famiglia e dolo unitario

Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2024, sentenza n. 47041
LA MASSIMA
“Il dolo nel delitto di maltrattamenti è unitario e programmatico, nel senso che esso funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.”
IL CASO
La Corte di appello ha confermato la reclusione dell’imputato, sebbene abbia ricalcolato la durata della pena rispetto a quella inflitta in primo grado, per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi di cui all’art. 572, comma 2, c.p.. Per più di una decade e con condotta riconosciuta ancora in atto, il reo ha assunto un atteggiamento svilente e di annichilimento della sua compagna, tanto da minarne la dignità e il benessere psico-fisico. Il reiterato comportamento inferiorizzante dell’uomo ha caratterizzato la relazione dei due soggetti sin dalle prime fasi della convivenza, acuendosi col tempo e anche manifestandosi sia durante lo stato di gravidanza della donna sia nella fase di ricovero in nosocomio dopo il parto. Le azioni sprezzanti e l’inclinazione a imporre il proprio dominio volte al soggiogamento della vittima sono proseguite, poi, nel periodo successivo al termine del rapporto sentimentale e alla cessazione della coabitazione: si sono, infatti, verificati episodi dispregiativi nelle occasioni in cui il soggetto esercitava il diritto di visita verso sua figlia.
Avverso la sentenza di merito di secondo grado, l’imputato ha addotto i seguenti motivi di ricorso, in relazione a molteplici violazione di legge.
In primo luogo, ha contestato la sanzione applicatagli, poiché l’allontanamento del soggetto dalla comune abitazione ha determinato un’interruzione delle condotte maltrattanti. Sicché, i fatti commessi andrebbero inquadrati nella fattispecie di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p..
In seconda battuta, ha sollevato un’ulteriore obiezione, non dovendosi ritenersi sussistente la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p. circa la configurabilità della “violenza assistita” a nocumento della figlia. Non è stato, infatti accertato, che la minore avesse contezza del disagio palesato dalla madre.
Da ultimo, ha sottolineato il carattere episodico delle condotte, non emergendo, al contrario, i tratti peculiari né della sistematicità né dell’abitualità del delitto di maltrattamenti.
LA QUESTIONE
Le questioni sottoposte al vaglio della Corte di Cassazione attengono alla valutazione dei presupposti per l’inquadramento delle condotte nella cornice dell’art. 572 c.p..
Il suddetto delitto rileva quale reato necessariamente abituale, dal momento che i comportamenti possono inscriversi in tale fattispecie delittuosa qualora si ripetano nel tempo aggressioni materiali o verbali che inficiano la stabilità mentale, emotiva e fisica della vittima assoggettata, la cui libertà viene compressa in uno stato di continuo sconforto, connotato da mortificazioni costanti, una crescente disistima di sé e una privazione del valore della propria esistenza. Alla luce di ciò, si rende opportuno, innanzitutto, verificare se le vessazioni abbiano contraddistinto l’intero corso delle interazioni tra l’imputato e la sua ex compagna negli anni in cui erano legati da una relazione affettiva vissuta all’interno del medesimo immobile.
Ne consegue che il secondo punto su cui focalizzare l’attenzione afferisce al lasso temporale successivo alla cessazione della convivenza. Ci si chiede, dunque, se la condivisione di uno stesso luogo in cui convivere sia parametro dirimente per sussumere il contegno soverchiatore nel delitto di maltrattamenti o in un’altra ipotesi di reato.
Infine, occorre formulare delle riflessioni sulla circostanza aggravante della cd. “violenza assistita”, di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p.: essa si configura quando i maltrattamenti sono perpetrati in presenza di minorenni, donne in stato di gravidanza o persone disabili e comporta l’aumento della pena fino alla metà. La violenza domestica, diretta e indiretta, in particolare, impatta notevolmente sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale del minore, oltre che sulle sue capacità di socializzazione. Lo stile abusante riprodotto ai danni di un singolo familiare, difatti, si riverbera sull’intero nucleo familiare, provocando turbamenti e umiliazioni anche nella prole.
LA SOLUZIONE
La sesta Sezione della Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello per nuovo giudizio sul punto, poiché ritiene fondati taluni motivi di ricorso e ne rigetta altri.
Richiamando un orientamento consolidato, i giudici di legittimità hanno, in primo luogo, chiaramente asserito che “il delitto di maltrattamenti consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita. Secondo tale ricostruzione i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo”.
Si ricava, dunque, che l’elemento psicologico del reato si ravvisa nel dolo unitario e programmatico, dal quale si evince “una precisa volontà di determinare una situazione di vita intollerabile”. Nel caso di specie, infatti, si esclude che i conflitti rientrino nell’alveo della fisiologia dei meri litigi tra le parti: non si tratta affatto di episodi isolati dovuti a incomprensioni o motivi caratteriali, quanto, al contrario, di un registro comunicativo e di condotta imperniato sulla violenza e sull’esercizio di potere sulla partner.
Come seconda considerazione, si sottolinea che l’abitare insieme costituisce un “discrimen” nel qualificare come maltrattanti i comportamenti di sopruso compiuti nell’alloggio in cui si convive; diversamente, le vessazioni consumate al di fuori dell’ambiente in cui i soggetti dimorano, per via di una coabitazione cessata, potrebbero ricondursi al delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., venendo meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento. Nella vicenda in esame, la condotta criminosa si svolge in distinti periodi temporali: lo scioglimento dell’unione di fatto rappresenta una cesura nell’inquadrare, da un lato, le azioni prevaricatrici poste in essere durante la convivenza e, dall’altro, quelle commesse successivamente a essa.
Al riguardo, la Suprema Corte condivide il filone giurisprudenziale del divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p.: tale divieto, infatti, “impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” di cui all’art. 572 cod. pen. nell’accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa”.
Da ultimo, quanto alla sussistenza dell’aggravante della cd. “violenza assistita” di cui al comma 2 dell’art. 572 c.p., si constata l’adesione dei giudici di merito al principio di diritto in virtù del quale “la fattispecie aggravata della c.d. “violenza assistita” è configurabile a prescindere dall’età del minorenne, purché il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psicofisico”.
Per la Corte di Cassazione, in conclusione, la Corte di appello, in sede di rinvio, dovrà focalizzarsi sulla ricostruzione delle condotte materiali in riferimento a due aspetti: l’uno concernente la permanenza e la cessazione del rapporto di convivenza tra il reo e la persona offesa; l’altro attinente alla concreta ed effettiva rilevanza penale sia nel periodo in cui la persona offesa versava in stato di gravidanza sia nel breve periodo in cui la coppia aveva convissuto unitamente alla bambina.