Cassazione, Diritto Penale, Sentenze

Rifiuto di atti d’ufficio del medico di guardia

Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2025, sentenza n. 4907

LA MASSIMA
“È configurabile il reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) nella condotta del sanitario addetto al servizio di guardia medica che, essendo stata condotta all’ ambulatorio una donna in stato di gravidanza che lamentava forti dolori addominali accompagnati da emorragia in atto, si sia limitato ad indirizzarla al più vicino pronto soccorso adducendo a giustificazione del rifiuto di sottoporla a visita il fatto che in ambulatorio non erano disponibili le apparecchiature necessarie al tipo di intervento che presumibilmente sarebbe stato da compiere”.

IL CASO
La Corte di Appello accoglieva il gravame proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione emessa nei confronti di un medico in servizio presso la guardia medica tratto a giudizio con l’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio.
In particolare, emergeva che la persona offesa, accompagnata da una persona che ebbe a soccorrerla per prima, si presentava presso l’ambulatorio della guardia medica nella quale prestava servizio l’imputato, temendo una minaccia d’aborto perché accusava forti dolori addominali e una emorragia in corso.
L’imputato, rimanendo sulla soglia di ingresso dell’ambulatorio senza favorire l’accesso alle due donne all’interno della struttura e senza procedere, dunque, ad alcuna visita, si limitava ad osservare la Persona Offesa a distanza di circa due metri e, alla luce di quanto riferito, la indirizzava presso il pronto soccorso più vicino, ritenendo più opportuno un ricovero ospedaliero e, al contempo, inutile l’accesso alla guardia medica, sprovvista dei presidi necessari.
Pertanto, la Persona Offesa si recava dapprima al pronto soccorso più vicino e poi presso un presidio ospedaliero, dove le veniva diagnostica una gravidanza extrauterina per la quale si rendeva necessario un intervento chirurgico.
Nel caso di specie, la Corte di Appello accoglieva il gravame proposto dalla parte civile dichiarando non doversi procedere per l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione e, al contempo, condannava l’imputato al risarcimento del danno arrecato alla parte civile, da liquidarsi in sede civile.
Avverso tale decisione l’imputato ricorreva per Cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte, a fronte della assoluzione resa in primo grado e del solo appello interposto dalla parte civile, dichiarato estinto il reato per prescrizione, pur avendo dato atto, nel corpo della motivazione, che la veste processuale della parte appellante implicava effetti solo sul versante della responsabilità civile. Il tutto, peraltro, sulla base di considerazioni dirette a riscontrare l’effettiva sussistenza della responsabilità penale e, dunque, dei tratti costitutivi del fatto di reato ascritto all’imputato, senza limitarsi a verificare la mera sussistenza di un illecito aquiliano, idoneo a provocare un danno ingiusto, in aperta contraddizione con le indicazioni di principio rese dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 182 del 2021.

LA QUESTIONE
Secondo consolidato orientamento nella giurisprudenza di legittimità, il sanitario che effettua il servizio di guardia medica è tenuto a compiere al più presto tutti gli interventi che siano richiesti direttamente dall’utente e che, per come prospettati, presentino caratteri tali da richiedere un immediato apprezzamento del quadro clinico e conseguenti opportuni interventi (Cass. sez. VI, 28 maggio 2008 n. 35344; Cass. sez. VI, 30 ottobre 2012 n. 23817).
Tale obbligo trova la sua fonte normativa nel D.P.R. n. 41 del 1991, art. 13, in forza del quale “[i]l medico che effettua il servizio di guardia in forma attiva deve presentarsi … presso la sede assegnatagli e rimanere a disposizione… per effettuare gli interventi domiciliari o a livello territoriale che gli saranno richiesti … Durante il turno di guardia il medico è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dall’utente… “. In linea di principio, non può negarsi al sanitario il compito di valutare, sulla base della sintomatologia prospettatagli, la necessità o meno di visitare il paziente: una tale discrezionalità, tuttavia, rimane comunque soggetta al sindacato del giudice alla luce degli elementi di fatto acquisiti agli atti e sottoposti al suo esame, attraverso i quali potrà accertarsi se l’esercizio del potere di valutazione del sanitario sia stato effettivo o – invece – meramente apparente. In questa ottica va rimarcato che:

  • l’art. 328 c.p., comma 1 è concepito come delitto di pericolo, nel senso che prescinde dalla causazione di un danno effettivo e postula semplicemente la potenzialità del rifiuto a produrre un danno:
  • l’urgenza dell’intervento, specie in campo sanitario, va apprezzata con riferimento al pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente irreparabile, che può comunque derivare al paziente dalla mancata o tardiva assistenza sollecitata, considerando che la tutela della salute è diritto costituzionalmente presidiato, che non può essere compresso o limitato da scelte irragionevoli del medico;
  • l’esercizio del potere-dovere di valutare la necessità della visita sulla base della sintomatologia esposta, sicuramente spettante al professionista, è comunque sindacabile da parte del giudice al fine di accertare se esso non trasmodi nell’assunzione di deliberazioni ingiustificate ed arbitrarie, scollegate dai basilari elementi di ragionevolezza desumibili dal contesto storico del singolo episodio e dai protocolli sanitari applicabili (Cass. sez. VI, 30 marzo 2017, n. 21631).

    LA SOLUZIONE
    La Corte di Cassazione ha ritenuto la valutazione in diritto resa dalla Corte di Appello esente da censure. Invero, nel caso di specie, a fronte dello stato e la sofferenza rappresentato dalla persona offesa vieppiù reso evidente dallo stato emorragico rassegnato e dalla prospettiva di una gravidanza in atto, ha stigmatizzato la condotta del ricorrente, mettendo coerentemente in evidenza che lo stesso aveva il dovere di procedere ad un immediato riscontro clinico senza poter prescindere da una visita effettiva dell’ammalata, necessaria per rendersi conto direttamente delle reali condizioni della predetta per poi apprestare, alla luce di una diagnosi seppur sommaria ma pur sempre effettiva, gli interventi, anche di indirizzo, ritenuti più opportuni.
    Né, in una situazione siffatta, la scelta dell’imputato di omettere a monte ogni approccio diagnostico effettivo può essere considerata espressione di una valutazione discrezionale, sostanziandosi, di contro, un vero e proprio rifiuto di atto d’ufficio: in maniera aprioristica, il sanitario ha radicalmente omesso di mettere a disposizione della paziente la propria professionalità, trascurando di effettuare una valutazione effettiva sulla consistenza della sintomatologia rassegnata ma limitandosi a suggerire alla stessa di recarsi presso un presidio ospedaliero così da confermare, in tal modo, di essersi reso conto che la situazione denunciata richiedeva comunque il tempestivo intervento di un sanitario.