Usura, estorsione e metodo mafioso: la Cassazione conferma la condanna per condotte successive al patto

Cass. II Sez, 26 febbraio 2025, n. 10976
LA MASSIMA
“Il delitto di usura si configura come reato a condotta frazionata o a consumazione prolungata perché i pagamenti effettuati dalla persona offesa, in esecuzione del patto usuraio, compongono il fatto lesivo penalmente rilevante, con la conseguenza che rispondono a titolo di concorso nel reato i terzi estranei all’accordo originario, che intervengono dando impulso alla procedura esecutiva per il recupero dei crediti rimasti inadempiuti per il conseguimento dell’illecito vantaggio usurario dagli stessi preteso.”
IL CASO
Nel caso in esame il ricorrente è stato ritenuto responsabile nei primi due gradi di giudizio dei reati di usura, estorsione e intralcio alla giustizia, avvinti dal vincolo della continuazione e aggravati dall’aver commesso il fatto avvalendosi della forza intimidatrice derivante dal sodalizio criminale di cui all’art. 416 bis c.p. In ragione di quanto premesso, questi è stato condannato alla pena complessiva di anni 10 e mesi sei reclusione.
Molteplici sono le doglianze avanzate dalla parte ricorrente:
- violazione di legge sostanziale e processuale e vizio di motivazione in relazione alla configurabilità del reato di usura in considerazione dell’estraneità del ricorrente sia al patto usurario, sia agli accordi intercorsi, essendosi quest’ultimo limitato a mettere in contatto la persona offesa con l’usuraio nonché a consegnare, in alcune occasioni, il danaro alla persona offesa, ma senza aver assunto alcun ruolo qualificato;
- violazione di legge penale sostanziale e processuale in merito al reato di estorsione, anche con riferimento all’elemento soggettivo del reato, in quanto, entrambe le pronunce, pur avendo dato atto degli ottimi rapporti intercorsi tra il ricorrente e la persona offesa e costantemente intrattenuti nel corso deli anni, hanno traslato in capo al ricorrente condotte di natura estorsiva riferibili solo in capo alla condotta attiva di colui che con violenza o minaccia sia sia procurato l’ingiusto profitto derivante dalla stipula del patto;
- violazione di legge penale e sostanziale e vizio di motivazione in ordine al reato di intralcio alla giustizia non essendo possibile individuare alcuna condotta decettiva in capo alla persona offesa che non ha mai desistito e receduto dalle proprie accuse;
- violazione di legge penale e sostanziale in relazione alla ritenuta applicabilità dell’aggravante di cui all’art 416 bis c.p. sotto il profilo oggettivo dovendosi ritenere il ricorrente del tutto estraneo dagli ambienti della malavita.
LA QUESTIONE
La questione sottesa all’esame della Corte concerne l’esatta qualificazione giuridica della condotta di colui che, sia pur estraneo al patto usurario in quanto limitatosi a porre in contatto il correo e la persona offesa, abbia susseguentemente posto in essere sporadiche condotte di consegna del danaro e abbia con successive minacce tentato di far ritrattare la denuncia presentata.
LA SOLUZIONE
La suprema Corte nel rigettare il ricorso dichiarandolo inammissibile in quanto fondato su censure manifestamente infondate e non consentite in sede di ricorso per Cassazione, ripercorre la vicenda rilevando quanto di seguito precisato.
In entrambi i gradi di giudizio il ricorrente è stato ritenuto responsabile dei delitti sopra meglio specificati, aggravanti dal metodo mafioso, in danno della persona offesa che, proprio su sua indicazione e dopo avergli confidato un momento di difficoltà, era stata condotta da un amico del ricorrente che si era reso disponibile ad erogare un prestito di 4.000 euro al quale era seguito, a fronte della morte del primo usuraio, una seconda pattuizione relativa alla restituzione della somma di cui sopra nettamente più gravosa. Il ricorrente aveva dunque sfruttato il rapporto di consuetudine e fiducia in lui riposto dalla persona offesa e ne aveva favorito la rovina.
Pertanto, in maniera congrua rispetto alle circostanze sopra richiamate, la pronuncia aveva rilevato la colpevolezza dell’imputato che era stata correttamente desunta dai giudici di primo e secondo grado proprio in modo conforme rispetto all’insegnamento tradizionale. È stato, infatti, in più occasioni ribadito che il delitto di usura si configura come un reato a condotta frazionata o consumazione prolungata, in quanto, i pagamenti effettuati dalla persona offesa, in esecuzione del patto, compongono il fatto penalmente rilevante inglobando la condotta di cui che, sia pur estraneo al patto e, quindi, estraneo all’accordo originario sia intervenuto dando impulso alla procedura esecutiva per il recupero dei crediti rimasti inadempiuti e per il conseguimento dell’illecito vantaggio usurario. A tacer d’altro si rileva che risponde del delitto di usura chi, intervenuto in un momento successivo al perfezionamento dell’accordo usurario, si sia attivato per il recupero del credito e ne abbia ottenuto il pagamento.
La motivazione delle sentenze di primo e secondo grado nel sostenere tale approdo ha precisato che il ricorrente avesse assunto nel caso di specie una condotta non insolita in simili contesti: trattandosi di soggetto che, proprio in forza di pregressi rapporti di fiducia, aveva potuto intercedere in favore della persona offesa per poi disvelare, solo in un secondo momento, il suo vero ruolo, ovvero colui che non solo lo aveva spinto a stipulare il patto, ma che lo aveva addirittura estromesso del mercato di riferimento.
Inoltre, i giudici di merito hanno ascritto all’imputato il reato di cui all’art. 377 ter trattandosi di fattispecie integrata da una qualsiasi condotta minacciosa che può concretizzarsi anche nei riguardi della persona che abbia reso dichiarazioni accusatore in fase di indagini preliminari per indurla a ritrattare nella predetta fase, indipendentemente dalla gravità della minaccia e dalla circostanza che il proposito sia riuscito, trattandosi di un reato di pericolo caratterizzato dalla c.d. tutela anticipata del bene giuridico del buon andamento dell’amministrazione della giustizia.
Infine, la sentenza precisa che correttamente in entrambi i gradi di giudizio è stata applicata l’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p. precisando che la norma non presuppone necessariamente l’esistenza di una associazione che rivesta le caratteristiche descritte dall’articolo in questione e che il soggetto ne faccia parte essendo sufficiente, ai fini della sua applicazione, che il sodalizio faccia solo da sfondo essendo evocato dal soggetto agente che con il suo comportamento minaccioso integri modalità di condotta che ne evochino la forza intimidatrice tipica. L’aggravante in questione è, infatti, pacificamente applicata a reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo stesso.
Inoltre, è pacifico che l’aggravante delle più persone riunione, avuto riguardo alle concrete modalità di estrinsecazione dell’azione, abbia natura oggettiva comunicandosi ai correi che, sia pur non presenti nel luogo di consumazione dell’illecito, siano stati consapevoli che il reato sarebbe stato commesso da più persone riunite ovvero da coloro che abbiano per colpa ignorato tale circostanza.